lingua giapponese

Leggere l’aria 「空気を読む」

  I giapponesi leggono l’aria. Sembra un gioco di parole ma è solo una traduzione letterale.

  I giapponesi crescono in un ambiente che li incoraggia a farlo.「空気を読む」, kuuki wo yomu, si dice in questa lingua complicata, ovvero letteralmente “leggere l’aria”. Nel senso di capire quando è bene parlare e quando no, quando un discorso rischia di ferire qualcuno o di insultare qualcun altro, quando è il caso di esprimersi su un argomento e quando è bene piuttosto ritirarsi. Quando la sincerità è troppa ed è giusto sorvolare.

  Sull’io prevale il tu e a dirlo così sembra persino un credo religioso. Non tutti sanno leggere l’aria, molti sbagliano, ma la capacità di farlo resta in questo paese un valore.

  I giapponesi parlano di sè quando viene chiesto di farlo, non parlano a sproposito. Se nella nostra società occidentale è bene mostrare, dissipare ombre evidenziando il proprio valore, stringere forte la mano per comunicare sicurezza, guardare dritto negli occhi per trasmettere attenzione, i giapponesi vengono invece educati a non vantarsi, a non parlare per parlare, a non guardare fisso, a non riempire spazi con domande o battute che cercano risate.

 Sono più tolleranti nei confronti del silenzio. Lo accettano e aspettano il proprio turno per parlare. E se la situazione non lo suggerisce, preferiscono tacere.

  Alcuni dicono che i giapponesi non hanno idee. Che mancano di opinioni forti. E’ gente forse poco paziente che non ha avuto la fortuna di dover aspettare. Le idee ce le hanno eccome ma non avvertono il bisogno di dimostrare di possederle. E’ proprio la tempistica, la distanza tra il possedere ed il mostrare che ci distingue da loro.
Per noi nel possedere è insito il mostrare, c’è dentro lo scambio, la condivisione immediata e spesso accesa delle idee. Un’opinione la proviamo subito sul campo, come un prototipo che venga sperimentato immediatamente per accertarsi del suo funzionamento e dei suoi eventuali difetti. Siamo noi a dover convincere il prossimo del nostro valore. Imporci talvolta per far capire che siamo sicuri, che abbiamo da dire.
E va benissimo così. Ad ogni società il suo relazionarsi.

  Ma qui è diverso. E non si può leggere un testo in giapponese cercandovi dentro la grammatica italiana. O si rischia una delusione cocente, di quelle che ricamano pregiudizi sulla pelle di un paese.

Legger l’aria significa pertanto anche far domande quando si vede l’altro silenzioso e saper aspettare che formuli la sua risposta. Anticipare un giapponese, parlargli sopra – magari solo per enfatizzare un segmento di ciò che ha detto – significa mettergli un dito sulle labbra.

 Non è il paese del “tutto e subito”. Ci vuole tempo.
Ma chi sa aspettare e si sa guardare intorno riuscirà un giorno, persino, a leggere l’aria.

Il Fuji-san non è uomo e non è donna

  Il Fuji-san non è uomo e non è donna. Non è divinità maschile nè femminile. E’ un monte ermafrodito. Così scrive Takeya Yukie. La lingua giapponese lo permette e non c’è bisogno di definire sempre il sesso delle cose.
In una vecchia canzone per bambini il Monte Fuji ha sembianze umane: ha la testache spunta dalle nuvole, il corpoavvolto in un kimono fatto di neve e i banchi di nebbia che si allungano in lontananza alle sue pendici non sono che le maniche di quell’immacolato kimono.
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Una antichissima credenza giapponese vuole che le montagne siano abitate dalle divinità e che, per questo, non sia lecito scalarle. Gli dei posseggono quei luoghi e gli uomini non possono e non devono disturbare la pace che vi regna.
Il Fuji-san, monte prediletto nell’immaginario dei giapponesi, era ed è tutt’ora considerato da molti una divinità. E’ la montagna più alta del Giappone ed è simbolo dello stesso concetto di “bellezza” per questo popolo. I giapponesi provano nei suoi confronti ammirazione sì, ma anche quel tipo di timore reverenziale che si avverte per le cose belle e, insieme, terribili.
In Giappone l’appuntamento con il tempo, che procede in centinaia d’anni, definisce sia il ricorrere prossimo del grande terremoto del Kanto che, la storia insegna, accade una volta ogni cent’anni, sia il risvegliarsi del Fuji-san che, invece, erutta ogni trecento anni. Perchè non bisogna dimenticarlo. Che il Fuji-san, anche con il suo kimono di neve indosso, è sempre un vulcano e possiede una lunga tradizione di eruzioni alle sue spalle. In giapponese “vulcano” si dice kazan 火山 che è “fuoco, fiamma” e “montagna”.
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Accadrà e c’è poco da aver paura. I giapponesi vivono in perpetua attesa di qualche disastro che verrà. Perchè verrà. E dopo che accadrà per un po’ a Tokyo non si potranno stendere i panni fuori e l’aria sarà impregnata delle ceneri del dio che si manfesta. Si girerà forse con le mascherine e muteranno i disegni dei bambini che tanto spesso tracciano il profilo del monte sulla carta.
  E in un territorio tanto “accidentato”, attraversato da frequenti tifoni, scosso da terremoti di notevole portata, travolto da tsunamie da una vasta gamma di altre calamità naturali, la solidarietà e l’aiuto reciproco sono  indispensabili.
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 Si dice che lo 仕方ない[shikata nai] il “non c’è nulla da fare” che spesso ripetono i giapponesi e che rende perplessi gli stranieri (i quali leggono in questa frase una eccessiva accettazione degli eventi), sia dovuto proprio alle intemperie climatiche cui questo popolo è abituato a fare fronte e che hanno modellato il suo carattere tenace, profondamente rispettoso e sempre collaborativo.
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 Ma lo “shikata nai” viene spesso frainteso perchè non è un “non faccio nulla e aspetto che le cose si aggiustino da sole”, ma bensì la presa di coscienza della sfortuna da cui poi parte la volontà di fare bene e di “gambaru”, ovvero di dare il massimo nelle proprie possibilità.

Il coniglio in bicicletta

  Ryosuke prende un giorno di vacanza per trascorrerlo con me, perchè anche a vivere insieme, a passare insieme i fine settimana, ci si manca. I gesti sprofondano nella litania del sempre e viene voglia di dedicarsi tempo nuovo. E’ come una fame che ti assale all’improvviso e che non molla.
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Progettiamo da settimane di tornare a mangiare la soba – che poi e’ la piu’ buona di Tokyo – a Jindaiji (qui alcune foto) a Chofu. Così mi viene a prendere al lavoro ed entrando nel caffè dell’università mi sorprendo di trovarlo in un luogo che nell’immaginario è solo mio.    
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Saliamo in bicicletta sotto il sole bollente dell’una e attraversiamo strade, percorsi nascosti alla vista di chi sceglie la via maestra, il lungo fiume nelle cui basse acque s’agitano anatre e bianche gru, il verde di campi coltivati, ripidi sentieri che s’aggrappano per salire o per scendere.  
Attraversiamo il tessuto narrativo di questa città piena di storie. 
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 Ci rincorriamo in bicicletta, io mi fermo a scattare qualche foto e quando possiamo allunghiamo una mano e ci stringiamo forte il palmo. Io che guido sempre a sinistra, lui a destra. La gente una volta ci guardava, chissà se lo fa ancora adesso. Sono io che non la guardo più, tanto sono immersa in Ryosuke e nella strada che si apre davanti a noi.
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Mi ha detto una cosa a letto stamattina, di quelle che non scordi più. Lo ha fatto come sempre nella sua lingua che è madre e padre dei suoi gesti. Nel giapponese che, per me, è pura sensualità per il suo differenziarsi da uomo a donna
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Ricordo ancora quando, seduti sul pavimento di legno del dormitorio, avevamo iniziato da poco a frequentarci e io gli chiedevo di leggermi libri, pagine di romanzi, solo per farmi sentire quella lingua che, nella sua bocca, aveva una eco cosi’ tremendamente intensa. Scapigliati ed eccitati, in quella vicinanza che era solo nostra, mi innamoravo sempre più di lui e della sua lingua piena di eccezioni.
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Poi, sulla via del ritorno, dopo una soba deliziosa, una chiacchierata che ci voleva proprio, baci che sanno di sale e bottigliette di tè comprate e già scolate davanti al kombini, ecco che lo vedo.
E tanto è inaspettato che rischio di non accorgermene neppure. Ma lo vedo. Eccolo
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Il coniglio in bicicletta.

Agosto Monogatari 「八月物語」

  L’ultimo giorno del mese è, per sua natura, portatore di bilanci. Quanti libri ho letto? Quante pagine ho scritto? Quanti piatti nuovi ho cucinato? Quante parole nuove ho imparato? Quanti luoghi ho visitato? Quante volte ho visto i miei amici?

  Nulla è così fiscale, invero non li conto. Forse perchè credo in una matematica tutta personale. Tranne i primi – i libri – che catalogo e riassumo, perchè determinano l’andamento dei miei studi.

“Ma studi ancora giapponese?”

  Il giapponese non ha fondo. E’ come la borsa di Mary Poppins e basta infilarvi dentro due dita per tirarvi fuori una parola che non si conosce. E per quante volte vi si immerga la mano si riemergerà sempre con un termine dal suono magari simile ad altri ma portatore di significati differenti.

  Le parole per loro natura sfuggono, sono ricoperte d’olio e grasso e non si fanno “acchiappare”. Questa lingua poi cela il suo infinito fascino proprio nella complessità della sua forma, dipanata in tre diversi tipi di scrittura, e nella sua illimitatezza.
Cambia con gli anni il modo di studiarlo – non più sui libri di testo ma leggendo libri e saggi – ma non si può sperare in alcun modo di “consumarlo” tutto.

  Mi sveglio tardi questi giorni. Tutte le università hanno concluso il calendario accademico, i ragazzi hanno svolto gli esami e – secondo un principio didattico nel quale credo profondamente – hanno mischiato tensione a divertimento. Nei fogli di commento che chiedo loro di scrivere a fine semestre trovo grafie, aggiunte, valutazioni del corso e persino pareri sul mio modo di vestire.
E’ curioso ma dopo le prime lezioni noto che molti di loro vengono a lezione vestiti un po’ più curati, un filo di trucco, un’acconciatura diversa, un accessorio che spicca. E spesso mi chiedono un parere: “Sensei, le piace? Cosa ne pensa? Mi sta bene?”.

  La bellezza di insegnare all’università è veder crescere i ragazzi, notare negli anni i loro cambiamenti.

  Chi mi dice che aveva paura del contatto con gli altri ma grazie alla lezione – durante la quale, per facilitare la comunicazione e lo stringere di nuove amicizie, faccio loro cambiare più volte posto – hanno superato il timore. Chi mi dice che è un piacere, che l’Italia ce l’ha nel cuore. Che vorrebbe viaggiare. Perchè la maggior parte di questi ragazzi non ha mai visto l’Europa.

  E poi, secondo una caratteristica tutta giapponese, alcuni ti scrivono a fine semestre anche letterine che riempiono di disegnini e faccine. Ringraziamenti a suon di ありがとうございました e 後期もよろしくお願いします.

  Così le vacanze d’estate sono iniziate e molti di loro torneranno per la festa dell’o-bon a casa, nei differenti frammenti di Giappone di cui sono originari. Io resterò a Tokyo quest’anno. Mi godo il canto delle cicale che urlano indecifrabili, struggenti sentimenti e lo spirito febbrile delle olimpiadi londinesi che arrivano in Giappone a suon di judo, calcio, nuoto. Con Ryosuke pero’ faremo gite e gia’non vedo l’ora.

  Vi saranno a giorni le strazianti commemorazioni per le vittime delle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki e, come ogni anno, mi chiederò come hanno fatto i giapponesi a perdonare gli americani e come fa il mondo a non sospettare di un popolo che pretende lo smantellamento degli ordigni nucleari quando è l’unico ad averne mai fatto uso*.

“Dopo la guerra eravamo terrorizzati dall’occupazione, dalle ritorsioni degli americani. Ma furono così gentili nei nostri confronti. Provammo solo riconoscenza”

  Così anni fa mi spiego’ un’anziana signora giapponese quando le chiesi il perchè. Lei era lì e ci sono cose che io non potrò mai capire. E sono grata a questo tempo che è ragione della mia ignoranza.

(*mia personalissima e non necessariamente condivisibile opinione, si capisce.)

Dei tanti nomi della pioggia, di giugno e delle prugne

E’ arrivato giugno, il sesto mese dell’anno 6月. E nella mia mente giunge alla fine di una prima mezzaluna che parte da gennaio e si trascina fino alle mani di luglio. E’, in Giappone, il mese delle ortensie grasse ed opulente, che per tutto l’anno si nascondono sui lati delle strade, nei giardini della case sotto le false spoglie di semplici cespugli. Ma poi fioriscono dell’azzurro del cielo d’estate, del rosa acceso degli abiti delle bambine, delle varie gradazioni di viola che sembrano ribadire quanto il murasaki sia uno dei colori piu’ presenti nella cultura giapponese. Ed è uno spettacolo che incanta.
Ma giugno è anche il mese dell’acqua, in cui l’elemento che circonda quest’isolotta che s’allunga da nord-est a sud-ovest come un cavalluccio marino, cade dal cielo, si mischia al vento e bagna ogni cosa. E’ la stagione delle piogge, nella cui denominazione è nascosto un frutto che matura. 梅雨, tsuyu. Le prugne e la pioggia. 
Sì, sono le prugne che con il loro sapore asprognolo e compatto accompagnano questi giorni umidi ed afosi. Chiedo a Ryosuke e lui mi racconta della preparazione dello sciroppo di prugne 「梅のシロップ漬け」con i nonni di Oita, della bacinella in cui galleggiavano verdi i frutti, del panno che li asciugava gentilmente, del bastoncino con cui estrarre il nocciolo, del grosso barattolo di vetro, dello zucchero e dello shochu. E passa un sorriso sul suo viso, di quelli che solo i ricordi di bambino sanno evocare ed il sentire degli adulti riesce a significare. 
E proprio ieri, seguendo con gli occhi un uomo che saltava sul convoglio un attimo prima che questo chiudesse le sue porte, ricordo di aver notato il sacchetto goffo e trasparente che stringeva tra le mani. Verdi, tondi e duri: erano proprio i frutti di ume.
Ma giugno è anche il mese dei cetrioli, dei frutti di biwa dal nome che ricorda lo strumento musicale, delle albicocche che dell’estate hanno il colore arancio, della radice di zenzero dall’odore aggressivo e di pesci che a tradurli in italiano mi suonano d’un tratto sconosciuti: cobite, sauro, grugnitore.
Quanti, innumerevoli, nomi ha la pioggia in questa lingua. Scopro in un libro sfogliato casualmente in biblioteca che il Giappone ha tanti modi di denominare la stessa acqua, differenti tipologie di pioggia. Perchè non c’è solo lo 梅雨 tsuyu, (ovvero – come ho spiegato sopra – la pioggia che cade in questo mese ed abbraccia il periodo della maturazione delle prugne), ma vi è anche la 春雨 harusame (la pioggia leggera di primavera), la 時雨 jigure (che cade alla fine dell’autunno in apertura d’inverno), la 緑雨 ryokuu (agli esordi dell’estate, quando il verde della natura è più squillante) etc. etc.
E così via. E così via.
Ma giugno, per noi, è anche il mese del timore e del sollievo. Perchè quello che non andava è stato sistemato. Un lungo sospiro che raccoglie le cure della nostra bambina, la degenza in ospedale, le visite, le flebo, le parole. 
E capita così che la pioggia, che ha accompagnato ed accompagna questi giorni, conservi in sè anche l’inesprimibile gioia del suo ritorno a casa.