madre

Ogni gesto

DSC01070Iniziano le danze delle febbri, tutti a ballare intorno al fuoco dei trentotto e trentanove. Mi si chiede l’ora in cui qualcosa accade, “A che ora gli ha misurato la temperatura? A che ora ha mangiato il bambino?”. Ed io resto sbalordita dalla mia inconsapevolezza. È stata la sera o la mattina? Era ieri o è stato oggi? La linea che demarca il giorno e lo distingue dalla notte sfuma in una sequenza singhiozzante di numeri: le 21, le 23, l’1, le 3 e 30, le 4 e 40. Delle mezzore o delle rare ore in cui si cala infine nel silenzio e poi nel sonno.

È difficile fare la madre, non lo sapevo. È difficilissimo conciliare le notti, tutte ristrette come panni in lavatrici settate malamente, con le sveglie all’alba, talvolta anche prima delle cinque, solo per scrivere un po’, per studiare, per prendere dei treni e andare ad insegnare. Hanno maniche corte le mie notti, sono lenzuola che coprono solo le ginocchia.

Prima guardavo le donne con i piccini attaccati al collo, magari sedute ad un caffè, rincorrendoli attraverso strettoie di tavoli e labirinti di sedie, cercando talvolta di tirarli in piedi quando quelli – indifferente ed allegri – si spalmavano a terra, sul pavimento del locale. Ne invidiavo la leggerezza, il tempo in abbondanza.

DSC01092Adesso invece ne immagino il profilo notturno, la fatica, alle prese con sveglie improvvise, con termometri che segnano anche 40 e che in un momento azzerano la percezione del tempo, il domandarsi perenne “ma come si fa in questi casi? esattamente cosa devo fare adesso?”.

Non ho mai amato “le madri di tutti”, quel tipo di donne che ostentano la maternità come brandissero un trofeo, che suggeriscono che tra le infinite ve ne sia una giusta e che, guardacaso, quella sia proprio la loro. I bambini sono tutti diversi, ripete la gente. Ebbene, se è per questo, lo sono anche le madri. E se l’obiettivo è uno – crescere bene i propri figli – i modi di attuare questo piano sono tanti.

DSC01094Forse è merito dell’intrenseco garbo dell’arte giapponese della conversazione – che fa sì da valorizzare il bello e lasciar da parte il brutto, che perennemente cerca un motivo di lode da mettere avanti, che ponga l’altro, i suoi discorsi, nel bel mezzo – forse invece è perchè scelgo con cura persone ed ambienti, o perchè più banalmente sono fortunata negli incontri, ma non mi è ancora capitato di imbattermi in locali esemplari di “madri di tutti”.

Mi guardo intorno, cerco piuttosto di capire come qui vengono cresciuti i bambini, come combinare il meglio del mio essere italiana a quello dell’esser diventata adulta tra giapponesi.

DSC01178Piangono i bimbi, fanno anche i capricci, ma qui avverto una sorta di calma diffusa nelle madri, qualcosa che mi lascia stupita, intimamente ammirata. Non si fanno tirare dentro l’isteria, aspettano che si calmino da soli, non sembrano aver fretta di metterli a tacere.

Si vergognano senz’altro, vorrebbero che facessero silenzio, ma restano vicini ai piccolini senza alzar le mani o senza gridare loro contro. Quando poi scatta l’arrendevolezza e il pianto di stanchezza, li abbracciano o li accarezzano, e lì finisce tutto.

DSC01132Eppure è proprio in quella silenziosa, spesso dolce resistenza, che li si sta educando. Sopportando anche che, intorno a loro, si pensi l’esatto contrario. Si cede spesso all’imbarazzo e allora si alza la voce, si grida. Ma non è mai per parlare al bimbo, bensì per dimostrare a tutti gli altri che li si sta educando, che si sta facendo il proprio lavoro. Una trappola in cui dovrò fare molta attenzione a non cadere.

Ricordo d’averlo pensato anni fa, notando la cura dello spazio pubblico. Che si imita naturalmente tutto quanto ci circonda, inconsapevolmente ci si adegua. È tanto più difficile buttare una cartaccia dove è tutto pulito piuttosto che farlo dove è sporco. Tutto sta allora nel circondarsi di quanto sappia migliorarci, che ci spinga a dare il meglio di noi.

Frequenta chi è meglio di te. Me lo ripeto da anni come un mantra. E “meglio” non significa necessariamente più colto o raffinato. Migliore in quanto a gentilezza, per esempio, o per il modo che ha qualcuno di reagire alla delusione. Ogni persona ha un dono.

Bisognerebbe ricordarlo, quanto ogni nostro gesto sia d’esempio a qualcun altro e quanto serva a mantenere o rompere equilibri. Imitare e creare con le proprie azioni un ambiente in cui sarà naturale agire per il meglio. È questo che vorrei riuscire a fare come madre.

In lode dell’okaasan

   In giapponese okaasan お母さんè la propria madre quando la si chiama, la madre di qualcun altro, o una persona che per età e ruolo potrebbe essere la propria madre putativa. Suocera si dice giri no okaasan 義理のお母さん ma si usa sempre più il solo okaasan.

   All’inizio sospettavo di lei, traumatizzata da ricordi di bambina in cui mia madre piangeva e una donna arcigna comandava con freddezza. Temevo di subire la stessa persecuzione. Qualcosa che ha guastato la mia infanzia. Ipersensibile, vittima d’un esperimento pavloviano, ero pronta a reagire in autodifesa al polpastrello che solo s’avvicina all’interruttore.
Ero terrorizzata e per i primi due anni tra me e la madre di Ryosuke vi è stata una muta distanza. Prevenivo, per non dover curare, ogni contatto. Ora so che quel mio tenerla lontana la fece soffrire.

   E mentre chiamo questa donna “mamma” mi torna su, come un cibo non digerito, il nome che mia nonna impose a mia madre, la distanza dell’Avvocato e della Signora. Per questo avverto, da grande, un desiderio violento di rivalsa, di punire chi è stato malvagio, di cacciare in malo modo chi non meritava di condividere il nostro cibo e il nostro ingenuo affetto.

 Ma è tardi, i morti acquistano un immeritato perdono e ciò che resta a distanza di anni, di funerali e parole mai restituite, è solo un odio sordo nei confronti dei prepotenti, un disprezzo velenoso nei confronti dei soprusi e, specularmente, un senso protettivo che mi scatta incontrollabile quando vedo una violenza nei confronti di animali o di persone in una posizione di debolezza o inferiorità.

   Bambini che calpestano formiche, una libellula colpita da una bicicletta, un vermino o una ranocchia in un punto pericoloso della strada. Basta fermarsi un attimo, riprendere i bambini, usare le pagine di un libro e mettere la creatura in salvo. La lotta all’indifferenza, l’ho imparato, parte anche da qui.

   L’ho capito col tempo che i sentimenti migliori richiedono esercizio, devono diventare abitudine, esattamente come pulirsi la bocca dopo aver mangiato o mettere una mano sulla bocca quando si sbadiglia. Ci si educa anche dopo che l’educazione la si è ricevuta. Si inizia a scegliersi, a limarsi. Migaku 磨くsi dice in giapponese. Ed è esattamente come la nostra lima. Non sono forbici ma dettagli da smussare.

   Così per due anni, iperprotettiva nei confronti di me stessa, quasi rassicurata dal modello alla mia mente più prevedibile – ovvero quello delle suocere che vessano le nuore – la tenni lontana.
E invece ho scoperto in questi anni una generazione di donne che a loro volta hanno sofferto della prepotenza delle “madri” e sono d’una dolcezza che muove quasi compassione.
L’albero nelle radici ha la fatica del germoglio.

 Di lei è l’attaccatura dei capelli che parte da dietro. Ha mani grassoccie, dita rotondette. Si muove goffamente, come una bambina. Quando pronuncia alcune parole è più delicata, come se succhiasse l’aria da una cannuccia. Le labbra minute di un neonato. E’ piena d’amore per i bimbi. Temeva per troppo amore i cani, perchè ha paura di soffrire e dice che una creatura che è destinata a morire prima di lei è una sofferenza assicurata. Ma poi ha incontrato la Gigia e le cose cambiano per tutti.

   Lei è la donna orso, kuma-onna, perchè Ryosuke una volta era il mio orso e lei, per una naturale associazione, è diventata la donna-orso. Non gliel’ho mai detto, perchè non vorrei leggesse errori in qualcosa che è perfetto. Ha la formalità confuciana delle donne della Prefettura di Oita, che sono naturalmente portate a vivere l’uomo come il padrone di casa. Morale ferrea che esercita su se stessa e mai sugli altri.

   Una suocera che per me è a tutti gli effetti una madre. E non c’è cosa che non le sappia confessare. Anzi, le rare volte che litigo con Ryosuke, è lei l’unica con cui posso parlare. La chiamo e mi abbraccia nella voce. Perchè per me Ryosuke è intoccabile e non voglio che qualcuno che lo conosce meno di me possa pensare che ciò che dico intacchi il mio giudizio su di lui. L’amore in me, ora che sono donna, supera in profondità la certezza che io nutro nei confronti di me stessa. Ma voglio anche sentirmi capita e consolata e solo lei è nella posizione di poter dare addosso a Ryosuke senza che io prenda la sua posizione come un’offesa nei confronti del mio uomo.

   Mi capita di chiamarla solo per sentire la sua voce. Quando ho bisogno di un abbraccio, di una coccola da niente. Mi chiede, vuole sapere, non si nega mai. Porta sempre frutta in grossi sacchi perchè sa che noi ne compriamo poca per via del costo eccessivo. Porta gli integratori a mucchi a Ryosuke, lo shampoo che usiamo da sempre, dolcini, cibo per la Gigia, tradizioni del Giappone che uomini e donne della sua generazione custodiscono nei gesti.

   Non abbiamo spazio in casa e tutto ciò che porta risulta sempre troppo. Gli spazi limitati del Giappone mi hanno educata alla parsimonia. Le cose sono belle da vedere e, se mi piacciono tanto ma stanno decisamente meglio nel negozio, mi limito – dove posso – a fotografarle.
Ma lei aggiunge ed io capisco che è come me, che l’entusiasmo supera in lei la razionalità.

   Ed ora, quando Ryosuke se la prende con lei per il suo sbagliare, io mi arrabbio con lui e scherzosamente lo riprendo:

「わたしの母の悪口を言わないで!」
“Non parlare male di mia mamma”

♪ 小沢健二 「いちょう並木のセレナーデ」

Gente che si dà in un’altra lingua

  “Io non ho paura, perchè …non ho … potege…”
E’ una frase piena di pause, quelle dell’incertezza della lingua che non sa, dell’italiano che inciampa nell’inglese e cerca di spiegare il pensiero in giapponese.
Ha i capelli tinti d’un rosso artificiale, porta gli occhiali ed ha i lineamenti che emergono tondeggianti dal quadrato del volto. Un naso importante, labbra grandi e bocca larga. Un’incertezza che avverto e non conosco.
  “Potegere? Perteggere?”
“Perdere?” suggerisco io anticipando per evitare frustrazione. Lo faccio sempre quando uno studente cerca invano di spiegarsi perchè i secondi che passano scavano una voragine tra il pensiero e la parola.
  “No, proteggere” precisa lei che infine si è trovata.
“Io non ho paura, perchè non ho più nulla da proteggere”

  Capita che nelle prime presentazioni, quando si deve parlare di un sè generale alla classe – chi sono, cosa faccio, cosa mi piace, chi c’è nella mia vita – ci si nasconda un po’ per imbarazzo, un po’ per una forma di modestia tutta giapponese, un po’ perchè non si hanno strumenti sufficienti per raccontarsi. Ma capita anche che durante la jikoshōkai 自己紹介 “la presentazione di sè” ci si sveli, affinchè di lì in poi non vi siano più domande che possano far male.
Forse è per questo che M-san da subito lo dice. Immediatamente dopo il nome.
“Mio figlio è morto dieci anni fa, in un incidente stradale”
E ci tiene a ripetere quella frase. Che non ha più paura, che niente le può più fare male perchè il peggio lei l’ha già provato.
“No, io non ho paura, perchè non ho più nulla da proteggere”

  E’ una ex insegnante di giapponese delle scuole medie. Ora insegna tennis ai ragazzi come volontaria. Dopo il pensionamento ha iniziato a studiare l’italiano.
Perchè proprio l’italiano?:
chiedo sempre a tutti dato che mi incuriosisce sempre tanto sapere cosa spinge persone così lontane dal mio paese a studiare una lingua che viene parlata quasi esclusivamente in Italia. E del resto è la stessa domanda che loro rivolgono a me circa il giapponese.
E’ perchè ha studiato il francese all’università e la pronuncia le risultò troppo complicata. E allora ha pensato che avrebbe potuto studiare l’italiano. Le piace anche la pronuncia, le piace tanto.
Racconta che suo marito dopo la pensione ha iniziato, invece, a studiare la storia e la filosofia del buddismo. Va ai corsi extracurricolari di una delle tante università che ci sono a Tokyo. Vi si organizzano lezioni nel weekend oppure la sera per i cosiddetti shakaijin, ovvero quelle persone che sono già inserite nella società, e “studiano part-time”. Li ospitano in aule che di giorno vengono affollate invece da quelli che mirano un giorno a diventarlo, shakaijin: giovani studenti spesso pigri e sonnolenti che incontro le mattine di ogni mia settimana.

  Così, nei discorsi di questa coppia che si sta facendo anziana e che deve aver sofferto tanto, si mischiano buddismo ed italiano in un connubio che sarei tanto curiosa di ascoltare.
L’italiano per i giapponesi è terapeutico. Si aprono strade da percorrere anche trafelati, con i bigodini in testa. Perchè nella lingua della pasta e della pizza, dei sorrisi e dei gestacci con le mani, si sentono liberi di reinventarsi.
Le formule indirette proprie del giapponese saltano, come ordigni ormai disinnescati, vengono risucchiate dalla forza, persino dalla violenza della lingua. Perchè in italiano bisogna dire o non si verrà capiti e non è più ovvio, come invece accade in giapponese, che l’altro capisca senza bisogno che si dica.

  Molti giapponesi dall’Italia tornano cambiati, più aggressivi, più diretti, tanto che del corpo fanno un tutt’uno con la mente. Sembra un paradosso ma a volte fatico persino a rapportarmi a loro. Diventano ibridi, nella stessa misura in cui un ibrido sono diventata anch’io, vivendo tanto fuori dall’Italia. I giapponesi che scelgono l’Italia rifiutano per istinto ampie pezze di Giappone. Così, anch’io, benchè intimamente innamorata del mio paese, soffrirei nel dovermi calare nuovamente nella sua realtà sociale, nei meccanismi che regolano il quotidiano del Bellissimo Paese. Sarei pesce senza acqua, lama senza manico, porta senza chiave.

  “Ehy, che stai a fa’?” esordiva un ex studente che parlava così bene l’italiano da rendere innecessarie persino le lezioni. La cadenza romana, il tono alto della voce, l’ironia continua sui giapponesi. Una sorta di piaggeria per accaparrare il mio consenso, per dire “anch’io sono italiano, anch’io la penso come voi”. Ma io ho cambiato idea e non la penso più nè come noi nè come loro. E soprattutto fatico sempre più a individuare un noi e a stabilire un loro. Dico “noi” per dire Italia ma sento assottigliarsi il potere del pronome.

  Così, una donna che si presenta per la prima volta a me e alla classe e dice in italiano che non ha più paura, che niente le può più fare male, mi scatena pensieri e ricordi, il sentimento dell’ibrido e la percezione traballante di un pronome soggetto. Del non essere nè fungo nè cavolfiore, nè rabbia nè passione, nè italiana nè giapponese. Sempre straniera ovunque andrò o ritornerò.
Ma la familiarità, mi dico, è probabilmente una cosa che si crea alla stessa stregua di un tavolo, la cui superficie la si lima con gli strumenti del mestiere, con le mani e infine con l’uso finchè non sarà liscia e piacevole al tatto, le cui gambe vai ad accorciare di un millimetro alla volta per rimetterle al giudizio del pavimento. Un’approssimazione perenne destinata a non incontrare perfezione.
Ripenso poi alla paura che questa donna magra con gli occhi grandi e i capelli rossi mi insegna essere sentimento che si fugge ma che racconta tanto non solo di ciò che manca e si vorrebbe ma soprattutto di ciò che si ha.
  Di tutto quanto – che è spesso tanto – si vuole proteggere.
E rivaluto le mie paure più profonde, testimonianza della vita che amo, delle persone a cui tengo, di tutto ciò che ho.

Ci sono donne intorno a me che perdono figli, che hanno vissuto e mai superato dolori immensi che le hanno risucchiate. E’ gente che si dà in un’altra lingua. E’ gente generosa.

  Chiunque abbia una storia da raccontare la racconti. Il mondo, sono certa, cambierà.

♪ Saycet “Her movie”

Nostalgie da migrante

A volte mi manca. E la vorrei dall’altro lato dei tavolini dei caffè dove vado ogni giorno, seduta sulla sedia su cui poso la giacca. La vorrei qui a darmi consigli non richiesti. Consigli da mamma.

Di quelli che ormai appartengono alla vita passata, tagliati su misura su quella che ero e che non sono più.
Mi si gonfiano gli occhi di lacrime. E’ solo stanchezza. E’ così che ricaccio indietro ogni cedimento.

“E’ perchè devi dormire di più. Se non dormi stai male” mi direbbe lei. Mia madre.

La distanza tra un continente e l’altro, tra l’Italia e il Giappone, si tramuta e si approfondisce. Una distanza non più fatta di chilometri, di paesi da attraversare per raggiungerci l’un l’altra, bensì fatta di tempo. Anni che si allungano, gonfiandosi d’esperienze private. Come pasta lasciata nell’acqua. La metti in bocca e la lingua, da sola, basta a disfarli.
Anni che hanno vita propria e non si lasciano più raccontare. E anche se ci provi, a narrarli, si rivelano per quello che sono: solo racconti.

Ieri in un caffè ho visto due coppie di donne. Una madre, una nonna e due figlie. Nella distribuzione dei pani e dei pesci ognuno riceve cibo e bevande. Le bambine si fanno le smorfie, la madre e la nonna si preoccupano delle conseguenze dei loro movimenti. La linguetta di un succo di frutta che una delle due bimbe cerca di staccare coi denti, bagnando di saliva il contenitore di plastica. Un attimo e i grandi risolvono i problemi dei piccoli. La pazienza non smorza il sorriso. Sono pasti brevi. I bambini si stancano presto.

E nell’alzarsi, nel restituire il vassoio pieno ormai solo di gusci al commesso, la nonna passa una mano sulla spalla destra della figlia, spazzando via con il palmo invisibile sporcizia. Forse qualche granello di polvere, forse un capello.
Un gesto che mi è sembrato tanto materno. Un gesto non richiesto. Forse persino inutile.
Le chiude anche la giacca. Un istante di dita. Forse un bottone.

E penso “ecco un altro di quei gesti che compiva una volta, quando la figlia era bambina, e che adesso non servono più”.

E, per un attimo, mi è tornata forte la nostalgia di mia madre.