Ogni gesto
Iniziano le danze delle febbri, tutti a ballare intorno al fuoco dei trentotto e trentanove. Mi si chiede l’ora in cui qualcosa accade, “A che ora gli ha misurato la temperatura? A che ora ha mangiato il bambino?”. Ed io resto sbalordita dalla mia inconsapevolezza. È stata la sera o la mattina? Era ieri o è stato oggi? La linea che demarca il giorno e lo distingue dalla notte sfuma in una sequenza singhiozzante di numeri: le 21, le 23, l’1, le 3 e 30, le 4 e 40. Delle mezzore o delle rare ore in cui si cala infine nel silenzio e poi nel sonno.
È difficile fare la madre, non lo sapevo. È difficilissimo conciliare le notti, tutte ristrette come panni in lavatrici settate malamente, con le sveglie all’alba, talvolta anche prima delle cinque, solo per scrivere un po’, per studiare, per prendere dei treni e andare ad insegnare. Hanno maniche corte le mie notti, sono lenzuola che coprono solo le ginocchia.
Prima guardavo le donne con i piccini attaccati al collo, magari sedute ad un caffè, rincorrendoli attraverso strettoie di tavoli e labirinti di sedie, cercando talvolta di tirarli in piedi quando quelli – indifferente ed allegri – si spalmavano a terra, sul pavimento del locale. Ne invidiavo la leggerezza, il tempo in abbondanza.
Adesso invece ne immagino il profilo notturno, la fatica, alle prese con sveglie improvvise, con termometri che segnano anche 40 e che in un momento azzerano la percezione del tempo, il domandarsi perenne “ma come si fa in questi casi? esattamente cosa devo fare adesso?”.
Non ho mai amato “le madri di tutti”, quel tipo di donne che ostentano la maternità come brandissero un trofeo, che suggeriscono che tra le infinite ve ne sia una giusta e che, guardacaso, quella sia proprio la loro. I bambini sono tutti diversi, ripete la gente. Ebbene, se è per questo, lo sono anche le madri. E se l’obiettivo è uno – crescere bene i propri figli – i modi di attuare questo piano sono tanti.
Forse è merito dell’intrenseco garbo dell’arte giapponese della conversazione – che fa sì da valorizzare il bello e lasciar da parte il brutto, che perennemente cerca un motivo di lode da mettere avanti, che ponga l’altro, i suoi discorsi, nel bel mezzo – forse invece è perchè scelgo con cura persone ed ambienti, o perchè più banalmente sono fortunata negli incontri, ma non mi è ancora capitato di imbattermi in locali esemplari di “madri di tutti”.
Mi guardo intorno, cerco piuttosto di capire come qui vengono cresciuti i bambini, come combinare il meglio del mio essere italiana a quello dell’esser diventata adulta tra giapponesi.
Piangono i bimbi, fanno anche i capricci, ma qui avverto una sorta di calma diffusa nelle madri, qualcosa che mi lascia stupita, intimamente ammirata. Non si fanno tirare dentro l’isteria, aspettano che si calmino da soli, non sembrano aver fretta di metterli a tacere.
Si vergognano senz’altro, vorrebbero che facessero silenzio, ma restano vicini ai piccolini senza alzar le mani o senza gridare loro contro. Quando poi scatta l’arrendevolezza e il pianto di stanchezza, li abbracciano o li accarezzano, e lì finisce tutto.
Eppure è proprio in quella silenziosa, spesso dolce resistenza, che li si sta educando. Sopportando anche che, intorno a loro, si pensi l’esatto contrario. Si cede spesso all’imbarazzo e allora si alza la voce, si grida. Ma non è mai per parlare al bimbo, bensì per dimostrare a tutti gli altri che li si sta educando, che si sta facendo il proprio lavoro. Una trappola in cui dovrò fare molta attenzione a non cadere.
Ricordo d’averlo pensato anni fa, notando la cura dello spazio pubblico. Che si imita naturalmente tutto quanto ci circonda, inconsapevolmente ci si adegua. È tanto più difficile buttare una cartaccia dove è tutto pulito piuttosto che farlo dove è sporco. Tutto sta allora nel circondarsi di quanto sappia migliorarci, che ci spinga a dare il meglio di noi.
Frequenta chi è meglio di te. Me lo ripeto da anni come un mantra. E “meglio” non significa necessariamente più colto o raffinato. Migliore in quanto a gentilezza, per esempio, o per il modo che ha qualcuno di reagire alla delusione. Ogni persona ha un dono.
Bisognerebbe ricordarlo, quanto ogni nostro gesto sia d’esempio a qualcun altro e quanto serva a mantenere o rompere equilibri. Imitare e creare con le proprie azioni un ambiente in cui sarà naturale agire per il meglio. È questo che vorrei riuscire a fare come madre.