romanzo

「音」 o la voce delle cose

Il mondo è pieno di rumori.

DSC00599Sousuke ne gusta le varianti, sperimenta l’incontro tra le cose, il suono che producono a scontrarsi, a strusciare l’una sull’altra, a graffiarsi. Sbatte il ciuccio sui giocattoli, le manine sulle superfici (tavoli, vetrate, corpi) e stringe nel palmo tutto ciò che gli capita a tiro. Mette alla prova la consistenza delle cose, si stupisce, assorbe, impara e poi rilascia. Ogni prima cosa si esaurisce per lasciar spazio ad una seconda, ad una terza. Ad un’altra.

Con il tempo, nel linguaggio ogni cosa si andrà limitando, una gamma di colori si farà solo “azzurra” o “blu”. Il “bianco” raccoglierà nel pugno decine di toni differenti. Un suono somiglierà sempre ad un altro. Nulla starà lì solo per se stesso, vi sarà bisogno di spiegarlo e così paragonarlo, ridurlo a qualcosa che si conosce già, qualcosa di inevitabilmente diverso. La meraviglia sarà chiusa tra le quattro vocali e consonanti di una parola sola.

Cresce la sua capacità di relazionarsi al mondo e insieme diminuisce, in ogni conquista, anche la capacità di cogliere il diverso, ciò che non è compreso nel linguaggio. È la regola del nostro mondo, la condizione prima della comunicazione. Qualcosa che, nonostante la sua normalità, mi impressiona profondamente.

D’altra parte anch’io, con la nascita di Sousuke, apprendo un nuovo modo di relazionarmi all’universo quotidiano: mi guadagno il tempo col silenzio.

DSC00611Il mondo torna a stupirmi dei suoi suoni. Una bottiglia d’acqua che può rilasciarne di simili a uno scoppio, il fruscio sommesso delle vesti quando mi muovo per la stanza, il clangore delle pentole mentre cucino, lo scroscio dell’acqua nel lavandino, il cigolio d’una porta e il sibilo del vento, il semplice colpire e sfregare delle piante nude sul parquet.
Ogni rumore è un possibile nemico del sonno di mio figlio, ogni movimento può causare la fine del mio tempo privato.

È quello in cui concludo il romanzo, che cresce adulto e si evolve anch’esso come un figlio. Ed è particolarmente vero adesso, perchè questo libro – che miracolosamente è già sotto contratto prima ancora d’esser terminato – è nato qualche mese prima di scoprire d’essere incinta, ha iniziato a prender forma quando Sousuke era nella mia pancia, ha subìto una brusca deviazione quando lui è venuto al mondo, è tornato sui suoi passi dopo i primi tre mesi di vita del bambino, ed ora, con le sue metaforiche gambette, si dirige con decisione verso la fine.

DSC00676È anche quello della tesi di dottorato, che ha tardato troppo, e a dicembre passerà infine in nuove mani. Va nutrito ogni giorno di letture, di scritture. Ne intendo fare, tempo permettendo, una cosa che rimanga. Qualcosa che apra nuove strade ancora.

E in questi progetti grandi che mi gonfiano il cuore di una passione tutta personale, o anche solo nella preparazione di una cena o nella sistemazione di una stanza, il silenzio mi è alleato. Anche il gorgoglio di una pentola che bolle, il timbro mesto di una sveglia che avverte che la pasta è cotta, il gemito della spia del microonde che mi dice che il riso è scongelato, possono diventare nemici potenziali.

In giapponese 「音」 è il kanji del “suono”. Si legge /oto/ o /on/, /in/ e indica il rumore, ma si può leggere anche /ne/ ed in quel caso indica la “voce” dell’essere umano, quel suono che s’avvinghia stretto ai sentimenti.

DSC00589Così è la parola 「本音」 /honne/ che indica “la verità” la sincerità dei propri sentimenti. È il kanji di 「本当」 /hontou/ “vero”, 「本物」 /honmono/ “originale, autentico”, abbinato a quello del suono 「音」nell’accezione di /ne/, della voce intima dell’uomo.

「本音を吐く」/honne wo haku/ “rivelare il proprio sentire/ le proprie intenzioni”

「弱音を吐く」/yowane wo haku/ “ lamentarsi, dolersi, rinunciare, arrendersi”

Può essere /ne/ anche il canto di un usignolo, perchè porta rimembranze e smuove emozioni.

DSC00528Tutto ultimamente mi fa pensare ai suoni, ogni cosa torna alla sua origine uditiva. E, come sempre, nei kanji trovo anche risposta ai miei quesiti.

Ecco che cos’era questo mondo di cose che si affollavano intorno a noi, al sonno del bambino, ai nostri movimenti, ecco cos’era questa nuova attenzione ai rumori del corpo, della casa, della strada.

Era il modo che la vita aveva di confessare i propri sentimenti. Era la sua “voce”.

Spitsu, Robinson 

«Se New York è una mela, allora Tokyo è un melograno»

  Se New York è una mela, allora Tokyo è un melograno.

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  Carmelita se lo ripete ogni volta che qualcuno le chiede com’è la città che, in un’afosa mattina di dieci anni fa, l’ha adottata.
Melograno, sì lo sa che è l’albero e non il frutto, ma non le importa, suona molto meglio così.
A volte le chiedono «Perché?». A volte danno semplicemente per scontato che una risposta non ci sia. Ma quando glielo chiedono lei sta zitta e si limita a sorridere.

  Com’è Tokyo?

  Se New York è una mela, allora Tokyo è un melograno. 

 Perché?

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  Perché snocciola chicchi d’un rosso succoso a ogni cambio della metro. Tanti piccoli semi, ognuno con una forma simile eppure distinta, incastrati tra branchie di legno. Sono città nella città, collegate da una lunga collana di rotaie. Basta spaccare il guscio per scoprirle, una a una, separate da invisibili linee di confine.

  Perché i chicchi di melograno hanno una dolcezza prudente che emerge in un tutt’uno con l’amaro del seme. È il sapore legnoso degli ammassi di insegne che coloratissime delimitano le strade e i marciapiedi, delle voci che gridano «Benvenuti!» per invogliare i clienti a entrare nei ristoranti, delle macchine in transito e dell’umanità di passaggio. Ed è anche tutto ciò che lo circonda: nostalgiche file di casette a due piani, piccoli campi e orticelli comunali, verde che fa capolino dai giardini delle ville. Tutto insieme, contemporaneamente, nella bocca.

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  Perché raggrumata intorno alle stazioni c’è la Tokyo attiva ed eccitata, affamata di cose e di consumi. Allontanandosi dalle strade principali, invece, si comincia a respirare la Tokyo sonnacchiosa, quella che sa che la sopravvivenza sta nell’equilibrio. Tra ciò che grida e ciò che tace.

  Ma soprattutto e Sopra a Ogni Cosa perché, se non hai voglia d’essere trovato, nessuno mai ti troverà. E nella vastità della sua superficie orizzontale e verticale a Tokyo puoi lasciare tutto quello di cui ti vuoi liberare.

  Estratto da Tokyo Orizzontale (Piemme, 2014) pp. 64-65

Un viaggio dentro Tokyo: tra scrittura e movimento.

Articolo/intervista pubblicato sulla rivista VIAGGIANDO nel mese di aprile 2014DSC01423無題

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 Tempura Kids, “CIDER CIDER”

«Tokyo non ha bisogno di maschere»

   «Shinjuku ha gli occhi spalancati. E non dorme mai.

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O così almeno credono i tokyoti. In verità, fa brevi ma frequenti pisolini a bordo dei treni che transitano sui binari e si concede la pigrizia dell’attesa in alcune domeniche di luglio, di mattina presto, quando le rotaie sono ancora fredde e la pioggia soffoca l’aria di umidità.

   Un occhio aperto e l’altro chiuso, fingendo una vigilanza che non le appartiene. Shinjuku è tentacolare e allunga le sue ventisei braccia, tredici linee in doppia direzione, sopra e sotto la superficie di tutta la città.

   DSC01882Non ha ciglia e non le sbatte mai. Ma deve stare in guardia dagli stuoli di ubriachi che si riversano in strada ogni notte e dalla yakuza che passeggia per Kabukichō.

E se Shinjuku lo fa, il suo mabataki – il ritmo delle ciglia sulle guance, dell’occhio che si apre e poi si chiude, che si chiude e poi si apre –, ecco se lo fa è solo per incantare chi ha voglia di cadere. Shinjuku ci gioca con la sua immagine di sirena ammaliatrice piena com’è di locali di piacere. Di postacci.

  Ma poi ecco coppie di una o due generazioni fa che camminano separate da mezzo metro di cemento, lui davanti e lei dietro, rispettando un’andatura che mantiene volutamente una distanza che non ha nulla di affettivo – perché l’amore c’è e c’è sempre stato – ma che conserva tanto, tantissimo di culturale; ed ecco gruppi di cinque, sei bimbi che si affacciano da grossi carrelli colorati, giovani maestre dell’asilo che li spingono per le strade in fila indiana e i bambini che sporgono ciglia, cappellini pigiati sulla testa e orli di uniformi tutte intinta; ed ecco cani al guinzaglio dei padroni, altri dentro a passeggini o musetti che sbucano dalla cerniera di una borsa.

  Così il quartiere muta volto d’improvviso rivelando quello che solo i tokyoti hanno sempre saputo: che non c’è stereotipo che tenga e che Tokyo non ha alcun bisogno di maschere.

DSC01918Perché per essere se stessa, le bastano tutte le facce che ha già

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Estratto da Tokyo Orizzontale, Piemme, 2014, pp. 216-217

«Quei giorni là»

  DSC01261 - コピー «Ci sono giorni sempre uguali, che si ripetono con insistenza. Giorni senza neppure un capello fuori posto, con un’espressione ebete sul viso e fraseggi fatti di rime prevedibili e scontate.

Sono la maggior parte in un’esistenza vissuta nella media, in cui l’unica certezza è che accadranno cose che ci piaceranno e altre no ma che la loro somma porterà comunque a un più o meno stabile equilibrio.

 Ci sono poi quei giorni in cui succede qualcosa di diverso. Niente di speciale in fin dei conti, ma sempre qualcosa. Una telefonata inaspettata, un incontro a lungo atteso, un piccolo tesoro ritrovato.

Sono giorni che ci lasciano appena stupiti, che per un momento ci fanno temere che niente sarà come prima.

O che magari invece ce lo fanno sperare.

Che ci illudono che il mutamento è alle porte e che possiamo finalmente sognare un’altra vita nella nostra, come un gioco di bambole matrioške in cui, spalancandoci all’ignoto, potremmo scoprire di possedere dell’altro al nostro interno.

Ma in questi giorni qua, al proprio interno, si scopre solo una miniatura di se stessi, una copia di quello che eravamo. Le cose rimangono immutate, impermeabili alle minuscole fortune o ai microscopici incidenti. Tutto come prima.

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  Poi, però, arrivano quei giorni là. Quelli che cambiano tutto. Quelli che ci insegnano che la vita segue direttive che noi, nonostante ne siamo i protagonisti, ignoriamo totalmente. Accadono raramente e ci spiegano di noi cose che non sapevamo. Sono quelli che usano maggiori cautele per non farsi scoprire e capita che le conseguenze le si gusti con ampio ritardo. Perché passano inosservati e svelano solo nella lunga distanza i loro effetti.

Altre volte, invece, lo si capisce da subito, da quando ci si sveglia la mattina – prima ancora di raccogliere il coraggio e mettere i piedi fuori dal letto – che niente tornerà al proprio posto. Capita quando muore qualcuno di mportante, quando una partenza sconvolge i nostri piani, quando un amorevero finisce o un amorenuovo inizia. Quando si brucia di passione o quando si brucia e basta.

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  E questo è proprio uno di quei giorni là. Ma nessuno ancora se ne è accorto.»

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Estratto da Tokyo Orizzontale, Piemme, 2014, pp. 169-170