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Quando la pesantezza mi àncora alla terra, quando ho poco da dire e troppo da sentire, mi prendo per la mano e mi porto in giro per Tokyo. Mi sostengo per un braccio mentre attraverso l’ultima portiera in coda alla Yamanote, una giravolta abile di fianchi ed eccomi seduta tra un fumoso salaryman mentre legge un giallo di Higashino Keigo e una donna dormiente, con la testa china in avanti, il capino di uccellino che riposa.
L’eccezione – che non detta legge – mi vuole oggi libera da impegni, la giornata di lavoro è finita, il pomeriggio è tutto mio.
Eppure c’è qualcosa che non va, una sensazione di fastidio che non passa.
Mi trascino a scrivere a Kinokuniya, nel caffè che sorge sul ventre del palazzo che contiene solo carta: riviste, libri, manga. Ma non sono produttiva, una tristezza senza nome nè cognome mi inibisce. Laura, cosa hai?
Chiudo il computer e apro libri in italiano. Leggo Natalia Ginzburg e “Le voci della sera”, leggo “Mi riconosci” di Andrea Bajani (“Il mio cognome si legge Baiani, non Bagiani. È molto più facile” mi ha corretto sere fa ad un evento in onore di Tabucchi, ma io nella testa continuo a sbagliare – con colpevole piacere), leggo Sergio Atzeni e “Passavamo sulla terra leggeri” e mi sembra di tornare bambina, perchè mi sembra un libro come non ne ho letti mai.
La parola leggerezza oggi mi rincorre. Quel che manca, del resto, è sempre avanti a noi e ci ricorda la sua assenza. Esco dal caffè per salire in testa all’edificio. Ma anche all’ultimo piano, circondata da pubblicazioni straniere, mi sento ancorata a terra. Questa è un’altezza che ancora non basta. Si può andare molto più in alto di così.
Lodi robuste, un altro articolo che uscirà a dicembre, il romanzo che esce a febbraio. Proprio ora di cosa ho, io, da lamentarmi? Ci sono state solo cose belle in questi giorni eppure sono inquieta. Perchè? Ma poi che espressione ho in viso? Che motivo ho di buttarmi queste ombre sulla faccia?
Mi lascio scivolare per le strade di Shinjuku. Comincia a fare freddo, gli alberi perdono le foglie, la gente abbandona gli abiti leggeri dell’autunno e l’incertezza che nasce nel mutamento di stagione. Si aggiungono giacche, foulard e impermeabili, il passo veloce negli scarponcini da pioggia; un nuovo tifone è alle porte, già bussa e salirà, e farà danni che di volta in volta, quando la storia inevitabilmente si ripete, tutti sperano più lievi. Nessuno merita una morte così.
Alzo lo sguardo e scopro che i piedi mi hanno portato sotto ai grattacieli del Comune. Non c’è fila questo pomeriggio, il tempo volge al plumbeo, l’osservatorio è gratuito ed è in cima al mondo. È così che diventerò più leggera, mi dico senza voce.
Forse la risposta a quest’ansia è proprio là, con le nuvole basse all’orizzonte, la pioggia che tintinna sopra i vetri, i turisti che fotografano l’immensità della città chiacchierando del programma della sera, dei luoghi che restano ancora da visitare, del cibo che si andrà ad assaggiare. Ci saranno lingue sconosciute, ci saranno anche italiani chiacchieroni, ci sarà la capitale giapponese spalmata come burro sopra il pane, come una cosa che lo sguardo può infine contenere e la bocca raccontare.
Ma non è l’altezza a salvarmi dall’ansia ingrata, è una parola. Perchè è sempre una parola.
“È che stai prendendo un equilibrio” mi dice per telefono Ryosuke, mentre guardo all’orizzonte un minuscolo trenino verde, la Yamanote, scorrere lento tra i palazzi.
“In che senso?” chiedo. “In questi giorni ci sono state solo cose belle”
“È proprio per questo. Stai riequilibrando dentro te le sensazioni”
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E mi immagino d’un tratto su una fune, con un’asta in pugno e il mondo sotto i piedi. È il posto ideale per immaginare di cadere e per sperare di non farlo.
Poi con la solita pazienza mi spiega il meccanismo di funzionamento interno dei mammiferi, dell’
omeostasi, del mantenimento dello stato originale, della chimica delle emozioni, di come vi sia per questo una resistenza naturale al benessere così come al malessere e di un libro che per caso ha letto di recente e che gli spiegava diffusamente l’argomento,
Non avevo mai pensato che l’equilibrio lo si perde non soltanto quando accade il negativo ma anche quando vi si aggiunge il positivo.
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「バランスを取る」/baransu wo toru/“prendere l’equilibrio (lett.), riequilibrarsi”.
Aggiusta tutto una parola. Ti spiega che non è che tu stai male, ma che cerchi l’equilibrio. Che stai integrando quella piccola gioia, quell’eccitazione figlia dell’impegno, alla tua vita quotidiana.
Che non c’è nulla da temere. Accadrà di nuovo, sparirà. Tornerà e poi se ne andrà ancora.
Ma tutto, prima o poi, si bilancerà.
♪ Two Door Cinema Club, I can talk