silenzio

Ogni volta

“Se nessuno ce lo chiede […], la risposta la sappiamo, ma se qualcuno ce lo chiede, non siamo in grado di dargliela.”

Francesca Rigotti

 Quando qualcosa inizia, lo fa sempre dal silenzio.

 È un sacco della spesa, il cestino vuoto a braccio, che si impugna dirigendosi sicuri verso gli scaffali, il banco frigo, l’angolo di spezie o cereali. È il progetto di una cena, la raccolta delle parti, il ricongiungersi in cucina.
Ed è lo squarcio, una volta che il silenzio si è interrotto, una volta che finisce.
Sono le forchette che stridono nel piatto, il cucchiaio che sbatte sul fondo, il coltello che tintinna nel taglio.
È una metafora il silenzio. La migliore.

 Da dicembre a settembre di quel primo anno di ricerca del bambino ricordo “ogni volta”. Ed “ogni volta” sono certa mi ricordi, tanto le stavo dietro, con la mano tesa e il fiatone. È che pedinavo ogni segnale, inseguivo ogni pezzo del corpo.
Un mal di reni un vaticinio, un mal di testa la sfinge.

 E ci credevo, non ci credevo più, ci credevo ancora, poi non più.

 E in tutto questo cercare ero zitta. Il silenzio una compagna.
Ogni giorno, come una nuova abitudine acquisita, consultavo pagine web – tutte lievemente somiglianti – in cui grafici spiegavano le medie e tabelle ti esortavano ad incasellare i dati, la tua età, la data dell’ultimo ciclo, la sua durata media. Valutavano per te il momento migliore, si spingevano oltre nel futuro calcolando persino la data presunta del parto.

 Quanti anni hai? Quando è stata l’ultima volta? Che giorno era?

 Erano domande così elementari che ti veniva quasi il sospetto non subissero variazioni nell’universo, che sappessero misurare in bianco e nero il destino comune di tutte le genti. Erano tabelle così pulite, nette, come certe zone espositive dell’Ikea dove entri in una cucina accessoriata, una camera da letto, un bagno fantasioso, e da lì la vita ti appare sempre elementare, un gioco da bambini. È sicuro, ti sposerai, avrai dei figli, sarai sempre felice.

  Era merito di quella matematica certezza, di uno più uno fa due, quasi una mano sulla spalla che ti sussurrava “Il destino è dalla tua, stai tranquilla, basta che fai come ti dico. Inserisci i dati e io ti dirò quando le probabilità saranno più alte. Fidati di me, i numeri non mentono mai”.
Seduta al tavolo del soggiorno, nel silenzio, la Gigia acciambellata ai piedi, inserivo, rassicurata scrivevo.
Cliccavo su quelle pagine più e più volte, nell’ossessione che già germogliava. In fondo non ci voleva niente a scrivere trentuno, a snocciolare tra le dita numeri a ritroso, giungere a dicembre, e poi a gennaio, poi a febbraio e via così, fino a che l’inverno non si faceva primavera ed un bel giorno d’autunno avrei avuto l’inizio della mia terza vita.

 Ricordo adesso con tenerezza come tenessi il conto dei mesi con le dita, raggi di una ruota che avrebbe dovuto condurmi immediatamente al risultato, e l’ingenuità, di considerare quando sarebbe stato più opportuno restare incinta in modo da incastrare il tutto con il lavoro, far combaciare le pause estive, le vacanze prolungate.
Come se davvero potessi scegliere io quando.
  Ma dicembre fu nulla. Gennaio seguì ed era silenzio. Nulla nel corpo mi parlava.

 A febbraio ero spaventata ma leggermente più convinta. Un sentimento che un po’ si prende a schiaffi tanto è contraddittorio. Ci convivo da quando sono bambina, alla speranza che tiene il pessimismo stretto stretto per mano, come per aiutarsi l’un altro ad attraversare la strada, a farsi coraggio.
Semino, mi aspetto la gioia, il campo colmo di primizie, e il desiderio è tale che me lo anticipo persino, il cestino traboccante, la fierezza del risultato. Eppure nell’avanzare verso quel pezzo di terra, nell’affacciarmi per verificare che qualcosa sia spuntato, faccio sempre un passo indietro. Non mi fido di me.

 È la malsana abitudine di chi si convince che a creder troppo in qualcosa si finisca per portarsi sfortuna.
Ricordo una telefonata a mia suocera, mentre andavo al kombini. Tra i corridoi illuminati a notte del Ministop vicino a casa, lungo lo sterminato viale di ciliegi ancora imbozzolato in un intrico di rami e tronco in attesa della loro annuale meraviglia, le parlavo emozionata di sintomi avvertiti che combaciavano con quelli letti altrove, in doppia lingua italiana e giapponese.

 “Tieniti al caldo” mi diceva. “Non aver fretta, vediamo”

「子どもは授かりもの」  “I figli sono un dono”, recitava calma nella saggezza della lingua giapponese.

 Ma la fretta io ce l’avevo già addosso. E m’avrebbe torturato nei mesi. Perchè dopo marzo sarebbe arrivato aprile, e poi maggio e l’estate sarebbe rimasta infeconda, nonostante ogni tabella, ogni data presunta del parto, ogni giorno propizio, ogni notte sprecata, ogni litigio scoppiato per una data saltata.
E la fretta sarebbe stata giusta.

 Ho imparato tanto in questi anni. Ed in quei primi mesi che la speranza è una cosa che cresce col tempo, come un amore che se non corrisposto alla lunga si tramuta in odio, perchè è intollerabile provare qualcosa di tanto grande, rivolgersi un’unica domanda e non potergli mai dare una risposta.

「音」 o la voce delle cose

Il mondo è pieno di rumori.

DSC00599Sousuke ne gusta le varianti, sperimenta l’incontro tra le cose, il suono che producono a scontrarsi, a strusciare l’una sull’altra, a graffiarsi. Sbatte il ciuccio sui giocattoli, le manine sulle superfici (tavoli, vetrate, corpi) e stringe nel palmo tutto ciò che gli capita a tiro. Mette alla prova la consistenza delle cose, si stupisce, assorbe, impara e poi rilascia. Ogni prima cosa si esaurisce per lasciar spazio ad una seconda, ad una terza. Ad un’altra.

Con il tempo, nel linguaggio ogni cosa si andrà limitando, una gamma di colori si farà solo “azzurra” o “blu”. Il “bianco” raccoglierà nel pugno decine di toni differenti. Un suono somiglierà sempre ad un altro. Nulla starà lì solo per se stesso, vi sarà bisogno di spiegarlo e così paragonarlo, ridurlo a qualcosa che si conosce già, qualcosa di inevitabilmente diverso. La meraviglia sarà chiusa tra le quattro vocali e consonanti di una parola sola.

Cresce la sua capacità di relazionarsi al mondo e insieme diminuisce, in ogni conquista, anche la capacità di cogliere il diverso, ciò che non è compreso nel linguaggio. È la regola del nostro mondo, la condizione prima della comunicazione. Qualcosa che, nonostante la sua normalità, mi impressiona profondamente.

D’altra parte anch’io, con la nascita di Sousuke, apprendo un nuovo modo di relazionarmi all’universo quotidiano: mi guadagno il tempo col silenzio.

DSC00611Il mondo torna a stupirmi dei suoi suoni. Una bottiglia d’acqua che può rilasciarne di simili a uno scoppio, il fruscio sommesso delle vesti quando mi muovo per la stanza, il clangore delle pentole mentre cucino, lo scroscio dell’acqua nel lavandino, il cigolio d’una porta e il sibilo del vento, il semplice colpire e sfregare delle piante nude sul parquet.
Ogni rumore è un possibile nemico del sonno di mio figlio, ogni movimento può causare la fine del mio tempo privato.

È quello in cui concludo il romanzo, che cresce adulto e si evolve anch’esso come un figlio. Ed è particolarmente vero adesso, perchè questo libro – che miracolosamente è già sotto contratto prima ancora d’esser terminato – è nato qualche mese prima di scoprire d’essere incinta, ha iniziato a prender forma quando Sousuke era nella mia pancia, ha subìto una brusca deviazione quando lui è venuto al mondo, è tornato sui suoi passi dopo i primi tre mesi di vita del bambino, ed ora, con le sue metaforiche gambette, si dirige con decisione verso la fine.

DSC00676È anche quello della tesi di dottorato, che ha tardato troppo, e a dicembre passerà infine in nuove mani. Va nutrito ogni giorno di letture, di scritture. Ne intendo fare, tempo permettendo, una cosa che rimanga. Qualcosa che apra nuove strade ancora.

E in questi progetti grandi che mi gonfiano il cuore di una passione tutta personale, o anche solo nella preparazione di una cena o nella sistemazione di una stanza, il silenzio mi è alleato. Anche il gorgoglio di una pentola che bolle, il timbro mesto di una sveglia che avverte che la pasta è cotta, il gemito della spia del microonde che mi dice che il riso è scongelato, possono diventare nemici potenziali.

In giapponese 「音」 è il kanji del “suono”. Si legge /oto/ o /on/, /in/ e indica il rumore, ma si può leggere anche /ne/ ed in quel caso indica la “voce” dell’essere umano, quel suono che s’avvinghia stretto ai sentimenti.

DSC00589Così è la parola 「本音」 /honne/ che indica “la verità” la sincerità dei propri sentimenti. È il kanji di 「本当」 /hontou/ “vero”, 「本物」 /honmono/ “originale, autentico”, abbinato a quello del suono 「音」nell’accezione di /ne/, della voce intima dell’uomo.

「本音を吐く」/honne wo haku/ “rivelare il proprio sentire/ le proprie intenzioni”

「弱音を吐く」/yowane wo haku/ “ lamentarsi, dolersi, rinunciare, arrendersi”

Può essere /ne/ anche il canto di un usignolo, perchè porta rimembranze e smuove emozioni.

DSC00528Tutto ultimamente mi fa pensare ai suoni, ogni cosa torna alla sua origine uditiva. E, come sempre, nei kanji trovo anche risposta ai miei quesiti.

Ecco che cos’era questo mondo di cose che si affollavano intorno a noi, al sonno del bambino, ai nostri movimenti, ecco cos’era questa nuova attenzione ai rumori del corpo, della casa, della strada.

Era il modo che la vita aveva di confessare i propri sentimenti. Era la sua “voce”.

Spitsu, Robinson 

ちょっと o della chiarezza del non detto

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  Ci sono parole misteriose. Che sembrano una cosa e poi sono tante altre.

Studiare una lingua straniera e soprattutto poi provarla sul campo è un notare continuo non solo del suo “centro” – delle sue vie alberate, delle strade eleganti piene di negozi, delle piazze con nomi famosi e altisonanti – ma anche delle sue apparenti “periferie” – viuzze, slarghi e rotonde poco frequentate da chi non conosce la città ma di cui, chi la abita, non può fare a meno.
Periferie che di una parola, di un’espressione, fanno spesso qualcosa di diverso.

Lo insegno sempre ai miei ragazzi, che più una parola la si usa più è soggetta a mutamento. Passa di bocca in bocca, attraversa regioni, fasce d’età, stati d’animo e ama cambiare, come le scale a Hogwarts, come le ragazzine di Shibuya.

Delle tante espressioni di cui ho imparato a scoprire giardinetti nei sobborghi, viuzze ignorate dalle cartine più importanti, ce n’è una: ちょっと che si pronuncia “chotto”, “ciotto”, e che, per il mio orecchio italiano, ha fascino nel suono. Ciotto, ciottolo, ciò, ciotola. Ha dentro un rumore che rotola via.
Ha il suono dell’acciottolio delle stoviglie nell’acquaio, di qualcosa di tenero e cicciottello, diminuisce ciò che rappresenta e insieme lo ingrassa.

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ちょっと  adesso lo si scrive in hiragana ma, insegna il giapponese di una volta, poteva essere anche un kanji, anzi due 「一寸」 dove 「寸」 era un’antica unità di misura e 「一」 è l’uno in giapponese oppure 「鳥渡」 che è un uccello, un volatile che attraversa. E chi lo sa che cosa era… 

Chotto matte ne. (Aspetta un attimo)Vuoi la torta?
Chotto dake. (Solo un po’)

Chotto, una parola che significa “un po’” ma che in realtà ha molto più tempo e materia al suo interno. Chotto non è solo un avverbio per chiedere di attendere un po’, per indicare una quantità limitata; è anche una risposta già di per sè. E spiega un altro pezzetto del popolo che lo pronuncia.

Scusi potrebbe dirmi quando arriva questo libro?
Chotto… (wakarimasen)

Quando crede si libererà un tavolo?
Chotto… (wakarimasen)

Il chotto sospende, omette, ferma l’interlocutore senza dire. E proprio qui sta il punto. Che non c’è bisogno di dire no, di dire , di dare una qualsiasi risposta. Il chotto mette Pause su tutto ed interrompe.
Diventa allora traducibile come un “non saprei”, un “ehm”. Sottintende una negazione.

Ma tra di voi che rapporto c’è?
Chotto…

Perchè non vuoi parlare con lei?
Chotto…

  Chotto è la distanza dalle cose, da un giudizio, tra una persona e tutto il resto del mondo. Una bolla che circonda e che ferma mani curiose, domande impertinenti, intrusioni nel privato. Perchè non c’è bisogno di dire – in giapponese non c’è n’è mai veramente – e la sospensione basta. L’altro capirà che non si può chiedere oltre.

Quel che ho capito in questi anni di un Giappone, che per me non è e mai sarà part-time, è che a dire le cose all’italiana spesso si arriva prima all’obiettivo ma che ad attendere e non dire alla giapponese spesso si arriva lo stesso, ci si mette tanto tempo e non si procurano ferite.

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  Non c’è un modo giusto, non c’è l’illusoria “via di mezzo”, c’è una situazione e varie possibili soluzioni e sta a chi cavalca due o tre o quattro culture scegliere quale strategia comunicativa usare. Mai privarsi dell’essere italiani ma mai far assurgere la propria cultura a quella “giusta”. Limita, rovina.

Il non so, il chotto che sospende è qualcosa che all’inizio confonde e indispettisce lo straniero “eccheppalle, un po’ di elasticità”, “suvvia, rispondi, un’approssimazione perlomeno” ma che poi, a lungo andare, lo rassicura “se lo ha detto è sicuro che sarà così, ci si può fidare”. Perchè nel tempo del non so, non posso dire non c’è menzogna.

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  Chotto poi serve anche a chiamare e insieme a protestare. Che suona come un “Ehi, scusi…”. Magari qualcuno che ti sta coprendo una visuale che ti spetta di diritto, qualcuno che intralcia il passo e allora diventa “scusi, permesso”.

Ma la lista è lunga ed io mi fermo qui.

Perchè Laura, adesso cosa devi fare?
Chotto…  ^^;