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Del tempo che si crea e dei fiori senza nome

E la prima settimana è andata. E la seconda è già iniziata.

Il ritmo lo si prende lentamente, come una medicina ed il suo effetto. Bisogna aver pazienza e tutto arriverà.

Il tempo è una cosa che si crea, non è qualcosa che si ha.
Ne parlavo oggi con S-san all’università tra un hoji-cha che ci scalda e i nostri studi, stretti stretti tra pagine di libri che attraversano almeno due lingue. Il tempo è una cosa che non si possiede, qualcosa che ad averla a disposizione tende a finire prima ancora di averla consumata. Non è una cosa tua. Come tutte le cose vive a questo mondo non lo si può possedere. Ma il tempo lo si può partorire sacrificando pezzi di noi. Porzioni di sonno, porzioni di attesa e di sana pigrizia.

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Il tempo e’ una cosa che si crea.

Un lampo, i nostri occhi si affacciano oltre la vetrata e oltre il balcone. Dopo qualche secondo un tuono. La pioggia si avvicina.

S-san dice: “E’ ancora lontano. Ma arriverà”. E il temporale infatti dopo poco è lì da noi. Questa volta usciamo ad accertarcene e noto un ragazzetto che guarda oltre la rete di protezione. Ha un bel volto. Un volto di bambino. Forse uno studente del primo anno a cui piace osservare gli spazi a precipizio.
Ti capisco” gli direi – ma non dico, “anche io li adoro“.

Crearsi il tempo. Torno alla mente a quel pensiero e mi preparo, anche domattina, a svegliarmi alle sei. Anche se non ce ne sarebbe bisogno.

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Perchè la verità è che ce n’è bisogno. Perchè senza quell’ora tutta mia prima dell’inizio del lavoro mi sembrerebbe di non avere abbastanza tempo.

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I ciliegi si fanno spogli di fiori e mettono fuori foglie. E il paesaggio muta ancora e si prepara ad una nuova primavera. Spuntano fiori nei campi, cespugli di cui non conosco il nome.

Lo chiedo: “Come si chiama?” e vengono fuori parole mai sentite.
Altri invece li riconosco. gli iris e i tulipani, le magnolie e i nanohana.

La primavera, anche senza ciliegi, è bellissima.
Ed anzi, l’assenza di quelle splendide (ma prepotenti) nuvole rosa, lascia spazio ad altre meraviglie.

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Diario d’un (altro) giorno perfetto

Una giornata piena piena. Di quelle che trasbordano come acqua dal vaso e non c’è modo di arrestarla.

Aprile per i giapponesi è il mese degli inizi e si sa che le prime volte sono sempre intrise di ricordi. Come se le seconde e le terze sapessero già di “saputo”, di “conosciuto”.

Incontro per la prima volta decine di ragazzi, freschi freschi di immatricolazione o studenti del secondo, terzo o quarto anno. Questi ultimi che mi arrivano spesso in classe in completo da impiegato/a, perchè dopo la lezione andranno a qualche colloquio di lavoro. Qui in Giappone, infatti, si comincia a cercare un impiego anche un anno prima della fine dell’università: ci si assicura il posto e, una volta laureatisi, i ragazzi entreranno nella società con cui hanno già firmato il contratto. Tutti stretti in quegli abiti seriosi fanno tenerezza.

Volti nuovi anche stamattina. Alcuni saranno complicati, già lo sai, ma sono quelli che alla fine ti si affezionano di più. Perchè non li ignori, non ti arrendi alle loro resistenze. E sono gli stessi che anche l’anno successivo ti vengono a trovare, ti chiamano nel campus e ti chiedono di pranzare in mensa insieme a loro.

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gridano due voci di ragazze mentre stavo tornando al parcheggio delle bici. Due ragazze “terribili” e bellissime che lo scorso anno mi hanno fatto penare. Ci parlo, mi raccontano di loro, del lavoro che stanno cercando, del fidanzato, del club di ballo. E io mi dico che davvero vale la pena fare con onestà il proprio lavoro. Che volere bene a questi ragazzi – arrabbiandosi se serve – ripaga.

Inforca la bici, vai in panetteria, un caffè-cioccolato ghiacciato, una quiche e un rotolino al cioccolato appena uscito dal forno, e un’ora tutta tua sul terrazzo del locale perchè oggi il tempo è bello, così bello che ti rende felice il solo essere qui e ora, in questo preciso mondo.

Scatta l’ora. Sistemi il trucco e nel tuo vestito rosso attraversi due quartieri in bicicletta, la luce forte del sole dell’una e mezza, ti spogli delle vesti di professoressa e vai a fare la studentessa. Abito rosso anche oggi perchè è il colore che s’adatta meglio alla densità delle prime volte.

Una pioggia di ciliegi che investe le strade di Tokyo in questi giorni, petali che si fermano sugli abiti e sui capelli della gente, a volte te li ritrovi nei vestiti o nella borsa che tieni spalancata nel cestino della bici. E nel viaggio da una università all’altra attraversi apposta un parco in cui ci sono centinaia di ciliegi. E la macchinetta fotografica non riesce a stare ferma.

Il seminario del Professore. Che non delude mai. E ti fa venire ancora più voglia di fare. Di sapere. Di conoscere e approfondire.

Con S. e K-san decidiamo di prenderci un caffè alla stazione vicina. E mentre io mi muovo nuovamente in bici e loro in treno, non resisto alla tentazione e, dai lati di una stradina secondaria colma zeppa di ciliegi, colgo da terra una manciata di petali e me li metto in borsa.
Inspiegabile la morbidezza di quelle minuscole creature tra le dita. L’umidità della pioggia caduta abbondante ieri e la gentilezza del colore.

Il caffè, che poi è un succo di frutta, allo Starbucks e torno a casa dalla mia Gigia~Ligia che alla morbidezza dei petali non ha nulla da invidiare.
E anche domani sveglia presto. Per non perdere neppure una goccia del giorno che sta per iniziare. Perchè questi giorni sono speciali e finiscono sempre troppo presto.

Come non si fa ad essere felici?

Sguardo all’insù

Uno scatto, questo, che racchiude a mio parere la poesia di questi giorni.

Due ragazze sedute su una panchina che rovesciano indietro la testa per guardare in su, verso i ciliegi. Una mano nei capelli e un fermaglio che ricorda il colore dei sakura.

Anche oggi, camminando sotto il lunghissimo tunnel di ciliegi vicino a casa, ho visto le persone guardare più in su che in giù con lo sgomento, a volte, di chi rischiava di scontrarsi.

In questi giorni l’atmosfera è proprio speciale.

 

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Dei ciliegi e delle previsioni di felicità

E’ la primavera dei grandi parchi, dei ciliegi che lambiscono in un rapporto rovesciato fiumiciattoli e laghetti. Ma sono anche i lunghissimi viali “programmati” decenni fa per esplodere in questa settimana. E’ la sincronizzazione della natura, che possiede ancora una sua regolarità precisa. Che rincuora.

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Ma è anche il rosa dei ciliegi, uno o due al massimo, che diventano il vanto di una casetta privata, il colpo d’occhio di una brutta palazzina. In questa città in cui bellezza e bruttezza si mischiano, in cui non c’è elemento uguale all’altro eppure in qualche modo si riesce sempre a trovarci dentro un ritmo regolare. Un filo conduttore.

Fiori ma non frutti. Le uniche ciliegie che ho visto in questi giorni erano appese al lobo dell’orecchio destro di una ragazza col caschetto che si affrettava verso l’uscita di un caffè.

E la gente esce di casa. Viaggia, si muove. Passeggia. La magia di questi dieci giorni l’anno che sono mito. La brevità delle cose che aiuta a cristallizzarle nel ricordo. Le strade di Tokyo vicine ai parchi o ai luoghi con maggior concentrazione di ciliegi sono più affollate del solito. La folla spesso innervosisce, perchè ci si trova sempre circondati da persone, macchine fotografiche, vociare d’ogni età. Eppure bisogna aver pazienza. Perchè tutti hanno diritto alla propria porzione di bellezza.

Le file si allungano. Le attese si gonfiano. Tutto sembra avere un suo valore speciale. E’ quello della felicità, della sua previsione, che fa dimenticare ogni fastidio.

E chi ha la fortuna d’essere felice in questa vita ed è più clemente con la quotidianità che non sempre s’aggiusta, forse conserva in alcune sezioni della propria giornata proprio quella previsione. Che ci sono “cose belle” ad aspettare.

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Le mie previsioni di felicità, tra le tante, in questi giorni sono: la sera il ritorno di Ryosuke, la passeggiata serale con la Gigia sotto i ciliegi in fiori, la telefonata su skype con mia sorella e Livia, i messaggi di Keiko e di Miwa, gli audiolibri in bicicletta, la macchinetta sempre pronta nella borsa, una lettura che mi aspetta, i caffè con S., le chiacchierate America~Giappone con Laura, le gite nel weekend etc. eccetera eccetera eccetera…

*In foto scatti di questi giorni. Il parco di Inokashira e un gruppo di salarymen e office lady vestiti in perfetto completo da lavoro che fanno hanami nella pausa pranzo.

Nostalgie da migrante

A volte mi manca. E la vorrei dall’altro lato dei tavolini dei caffè dove vado ogni giorno, seduta sulla sedia su cui poso la giacca. La vorrei qui a darmi consigli non richiesti. Consigli da mamma.

Di quelli che ormai appartengono alla vita passata, tagliati su misura su quella che ero e che non sono più.
Mi si gonfiano gli occhi di lacrime. E’ solo stanchezza. E’ così che ricaccio indietro ogni cedimento.

“E’ perchè devi dormire di più. Se non dormi stai male” mi direbbe lei. Mia madre.

La distanza tra un continente e l’altro, tra l’Italia e il Giappone, si tramuta e si approfondisce. Una distanza non più fatta di chilometri, di paesi da attraversare per raggiungerci l’un l’altra, bensì fatta di tempo. Anni che si allungano, gonfiandosi d’esperienze private. Come pasta lasciata nell’acqua. La metti in bocca e la lingua, da sola, basta a disfarli.
Anni che hanno vita propria e non si lasciano più raccontare. E anche se ci provi, a narrarli, si rivelano per quello che sono: solo racconti.

Ieri in un caffè ho visto due coppie di donne. Una madre, una nonna e due figlie. Nella distribuzione dei pani e dei pesci ognuno riceve cibo e bevande. Le bambine si fanno le smorfie, la madre e la nonna si preoccupano delle conseguenze dei loro movimenti. La linguetta di un succo di frutta che una delle due bimbe cerca di staccare coi denti, bagnando di saliva il contenitore di plastica. Un attimo e i grandi risolvono i problemi dei piccoli. La pazienza non smorza il sorriso. Sono pasti brevi. I bambini si stancano presto.

E nell’alzarsi, nel restituire il vassoio pieno ormai solo di gusci al commesso, la nonna passa una mano sulla spalla destra della figlia, spazzando via con il palmo invisibile sporcizia. Forse qualche granello di polvere, forse un capello.
Un gesto che mi è sembrato tanto materno. Un gesto non richiesto. Forse persino inutile.
Le chiude anche la giacca. Un istante di dita. Forse un bottone.

E penso “ecco un altro di quei gesti che compiva una volta, quando la figlia era bambina, e che adesso non servono più”.

E, per un attimo, mi è tornata forte la nostalgia di mia madre.