ferrovia

Di come iniziano le storie. Del fiume Tama e dei vizi capitali.

Le storie cominciano da qualcosa di inaspettato.
Partono da una lacerazione del quotidiano, da un mutamento che improvvisamente rende “tutti i giorni” “altri giorni”.

E nella freccia che dal tutto procede dritta verso l‘altro è insita l’attesa del “non so”, la paura di inciampare, l’aspettativa che troppo spesso sa sciupare.

  La storia di questa foto parte dalla donna in bianco, un istante prima che esca dalla cornice. L’orlo del suo abito agitato dal vento, la corolla dell’ombrello che la custodisce da una pioggia leggera che inizia ad increspare appena la superficie del fiume.
E’ il fiume Tama, il 多摩川 sulle cui rive, in uno spazio delimitato vicino in linea d’aria alla stazione, gruppi di giovani giapponesi si riuniscono per fare barbecue che, scopro, amano tanto. E’ lì, la ferrovia sopra ai cui binari sfrecciano i treni e sotto, invece, scorre il fiume. Decine di tendoni colorati e un fumo che s’alza appetitoso.

  E’ il verde scintillante di giugno, sono bambini – di cui nella fotografia ne resta solo uno – che giocano a rincorrersi e poi si chinano a raccogliere ciottoli.
M’innamoro della donna in bianco che tira giù tutto il baricentro dello scatto. E’ la Bellezza. E non è solo qua.

  Giorni fa rileggendo casualmente il mio diario, pagine che scrivevo ormai tanti anni fa, quando ancora abitavo a Roma e del Giappone non sapevo ancora niente, ho scoperto – senza sorprendermi invero – che della Capitale scrivevo con lo stesso sguardo innamorato di cui oggi scrivo di Tokyo.

 Mi raccontavo i volti sugli autobus e i tram, i tramonti che s’arrampicavano sui tetti delle chiese, i temporali improvvisi, il cigolare delle persiane, la chiassosa socialità della gente, gli sguardi macchiati di desiderio, altri ancora di giudizio. E in ogni cosa trovavo una storia da raccontare. Solo che allora non avevo foto perchè non sapevo ancora che la macchinetta fotografica non è qualcosa che si porta nella valigia di viaggio ma qualcosa che si mette nella borsa.
Perchè nel quotidiano c’è già tutto.

  No, non vale la pena di odiarla questa vita, di detestare ciò che non va per il verso che vorremmo. E a chi non ci perdona la serenità e la gioia – veri vizi capitali agli occhi di chi soffre – non diciamo nulla. C’è sempre tanto patimento nella rabbia.

  Passiamo oltre e godiamoci la bellezza del giorno che è davanti. Non si vive che per quello.

Del lato giusto del sole e della luna.

Che bella l’eclissi. Dalla ferrovia veder la luna cibarsi del sole.

Con l’elegante inesorabilità della natura, che procede fino a conti fatti. Che sono conti giusti, privi di gentilezza ma anche di livore.

E il sole si dibatte tra le nuvole che gli si affollano intorno, subito dopo che l’eclissi s’è fatta anello e che, idealmente, molti ragazzi se la sono messa all’anulare. Perchè, quintessenza del romanticismo, pare che molti giovani giapponesi abbiano fatto la loro proposta nell’istante esatto dell’eclissi anulare.

Mio cognato è seduto subito dietro di noi con la pesante macchina fotografica e i suoi tanti obiettivi. Ryosuke ed io ci passiamo la striscetta di plastica nera attraverso la quale osservare il sole e di tanto in tanto scattiamo delle foto.

E intanto mi guardo anche intorno, come quando al cinema abbassi lo sguardo dallo schermo e ti soffermi sui volti concentrati della gente su cui passano nello stesso istante le medesime emozioni.

Le nuvole hanno rovinato un po’ l’attesa ma i giapponesi hanno questa meravigliosa abilità di valorizzare il positivo piuttosto che di enfatizzare il negativo. La lamentela dura poco, giusto il tempo di una esclamazione e, subito dopo, si raccoglie con le mani a conchetta ciò che di bello resta.

Come di un pacco di farina che rovinosamente cada a terra e si lodi la parte che miracolosamente è rimasta sul fondo del sacchetto oppure la casualità che volle che se ne fosse acquistato un pacco in più proprio il giorno prima. Oppure, meglio ancora, si sottolinei quanto in fondo sia tutto andato bene e di quanto la cena fosse stata buona.

E’ il lato giusto della luna.
E così le nuvole che alla fine hanno avvolto l’eclissi le hanno donato un’atmosfera persino più bella. E dell’eclissi, quelle con le nuvole tutto intorno, sono di certo le foto migliori.

Perchè a questo mondo con la negatività ci si fa veramente poco.


*In foto (2) una mamma e il suo bimbetto mentre aspettano l’eclissi.

Neve sul Fuji. Tokyo mon amour.

Abe Kobo scrisse di Tokyo “un numero infinito di villaggi. Questi villaggi e queste persone all’apparenza sono identici. Per questo, per quanto ci si possa addentrare in essa, sembra di essere rimasti al punto di partenza, senza giungere da nessuna parte“.

Il Fuji-san è come se vegliasse su Tokyo. Una montagna che protegge il più grande ed affollato agglomerato urbano del mondo. Trentasei milioni di persone. E all’orizzonte questo splendido monte che sempre è rimasto nell’immaginazione del popolo giapponese.

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Il mio sguardo si rivolge sempre lì la mattina. Se il tempo è buono forse lo si scorgerà. Ma è raro. Tende a nascondersi, a celarsi dietro nubi e foschie. Poi capitano giornate in cui l’aria è davvero trasparente. Il freddo porta i momiji e porta anche giornate di blu intenso in cui, dalla ferrovia, andando al lavoro, lo vedo. E mi cambia l’umore. ❤

Monte Fuji. Scatti rubati al tramonto.

Meraviglie del Giappone. Stare mezzora seduta sulla scalinata della ferrovia a guardare il profilo perfetto del monte Fuji.
Di ritorno da una bella mattinata di lavoro e da un intenso pomeriggio di studio, in bicicletta scorgere la silhouette delle montagne e intuire che e’ la sera perfetta per scorgere il Fuji.
Ed infatti è stato così.

Tonalità che passano dall’azzurro intenso alle spalle, al rosa e violetto ai lati, fino all’arancio, davanti, che abbraccia il monte simbolo del Giappone.

Nonostante il freddo eravamo in parecchi a guardarlo e fotografarlo dal ponte di ferro battuto che attraversa lo snodo ferroviario.

E nuvole sulla vetta innevata che sembravano fumo.
Mi incanto ogni volta, non c’è niente da fare.

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