Per prima cosa… grazie!

Oggi, chiacchierando con una cara amica su skype – di quelle conversazioni che ci separano di due o tre continenti a seconda della sua mutevole collocazione – mi è tornata in mente un’ intervista ad una atleta giapponese mandata in onda un paio di mesi fa in televisione durante un popolare programma della mattina. 
Si parlava della preparazione alle Olimpiadi di Londra, dell’allenamento ma anche dell’attitudine mentale in vista della grande prova. Questa atleta – forse una maratoneta, non ricordo –  spiegava all’intervistatore che, come esercizio di supporto psicologico, scriveva sul suo quadernino questa frase, la stessa ogni giorno: 

“Grazie di cuore della medaglia d’oro ricevuta alle olimpiadi di Londra”

Il quadernino che mostrava alle telecamere era fitto fitto di scrittura. Righe tutte uguali che recitavano la stessa frase piena di riconoscenza per una medaglia (ovviamente) mai – o non ancora – ricevuta.
In questo modo, lei diceva, riusciva a trasformare l’ansia da prestazione in riconoscenza e grazie a questo sentimento a caricarsi ogni giorno di positività.
E commentavamo con la mia omonima amica, che attraversa per amore continenti, che è proprio così che bisognerebbe affrontare le sfide e i grandi progetti della vita. 
 

Dei tanti nomi della pioggia, di giugno e delle prugne

E’ arrivato giugno, il sesto mese dell’anno 6月. E nella mia mente giunge alla fine di una prima mezzaluna che parte da gennaio e si trascina fino alle mani di luglio. E’, in Giappone, il mese delle ortensie grasse ed opulente, che per tutto l’anno si nascondono sui lati delle strade, nei giardini della case sotto le false spoglie di semplici cespugli. Ma poi fioriscono dell’azzurro del cielo d’estate, del rosa acceso degli abiti delle bambine, delle varie gradazioni di viola che sembrano ribadire quanto il murasaki sia uno dei colori piu’ presenti nella cultura giapponese. Ed è uno spettacolo che incanta.
Ma giugno è anche il mese dell’acqua, in cui l’elemento che circonda quest’isolotta che s’allunga da nord-est a sud-ovest come un cavalluccio marino, cade dal cielo, si mischia al vento e bagna ogni cosa. E’ la stagione delle piogge, nella cui denominazione è nascosto un frutto che matura. 梅雨, tsuyu. Le prugne e la pioggia. 
Sì, sono le prugne che con il loro sapore asprognolo e compatto accompagnano questi giorni umidi ed afosi. Chiedo a Ryosuke e lui mi racconta della preparazione dello sciroppo di prugne 「梅のシロップ漬け」con i nonni di Oita, della bacinella in cui galleggiavano verdi i frutti, del panno che li asciugava gentilmente, del bastoncino con cui estrarre il nocciolo, del grosso barattolo di vetro, dello zucchero e dello shochu. E passa un sorriso sul suo viso, di quelli che solo i ricordi di bambino sanno evocare ed il sentire degli adulti riesce a significare. 
E proprio ieri, seguendo con gli occhi un uomo che saltava sul convoglio un attimo prima che questo chiudesse le sue porte, ricordo di aver notato il sacchetto goffo e trasparente che stringeva tra le mani. Verdi, tondi e duri: erano proprio i frutti di ume.
Ma giugno è anche il mese dei cetrioli, dei frutti di biwa dal nome che ricorda lo strumento musicale, delle albicocche che dell’estate hanno il colore arancio, della radice di zenzero dall’odore aggressivo e di pesci che a tradurli in italiano mi suonano d’un tratto sconosciuti: cobite, sauro, grugnitore.
Quanti, innumerevoli, nomi ha la pioggia in questa lingua. Scopro in un libro sfogliato casualmente in biblioteca che il Giappone ha tanti modi di denominare la stessa acqua, differenti tipologie di pioggia. Perchè non c’è solo lo 梅雨 tsuyu, (ovvero – come ho spiegato sopra – la pioggia che cade in questo mese ed abbraccia il periodo della maturazione delle prugne), ma vi è anche la 春雨 harusame (la pioggia leggera di primavera), la 時雨 jigure (che cade alla fine dell’autunno in apertura d’inverno), la 緑雨 ryokuu (agli esordi dell’estate, quando il verde della natura è più squillante) etc. etc.
E così via. E così via.
Ma giugno, per noi, è anche il mese del timore e del sollievo. Perchè quello che non andava è stato sistemato. Un lungo sospiro che raccoglie le cure della nostra bambina, la degenza in ospedale, le visite, le flebo, le parole. 
E capita così che la pioggia, che ha accompagnato ed accompagna questi giorni, conservi in sè anche l’inesprimibile gioia del suo ritorno a casa.

L’imprevedibile che diventa “kawaii"

Oggi bici, lavoro, lavoro e poi di nuovo bici. E di corsa verso Kichijoji e poi Shibuya e poi di nuovo un altro cambio della metro per scendere ad una stazione che vedo per la seconda volta nella vita. 
Vi passa sotto un fiume e due immensi prati su cui c’è chi fa jogging, chi gioca a tennis, chi cammina con il proprio cagnolino al guinzaglio, chi passeggia mentre il sole cade a picco sul quel verde che si espande a perdita d’occhio. 
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Io invece salgo su un taxi e percorro uno stradone pieno di macchine puzzolenti. E’ una zona nuova, anche un po’ brutta se vogliamo, appena fuori Tokyo, in cui senza uno scopo non si viene. Famosa forse solo per lo yakiniku e per il pachinko: il che è tutto dire. 
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Il mio scopo, quest’oggi come ieri, è la Gigia.
Chiacchiero con il tassista durante il tragitto e, nonostante l’ansia di vedere come sta la mia bambina, mi sento ottimista. E mi torna in mente – vai a capire perchè – la canzoncina di Kiki’s Delivery Service 「魔女の宅急便」, il film di Miyazaki Hayao, quello con la streghetta che fa consegne a domicilio a bordo di una scopa in compagnia del suo gatto nero Jiji.
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La mia Gigia stamattina è stata operata con successo e ora, nella sua gabbia, aspetta di guarire e di rimarginare la ferita. Ha un collare azzurro, si regge in piedi un po’ intontita, ma appena mi vede agita la coda che non ha, apre forte gli occhi color nocciola e allunga il muso per ricevere carezze. 
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Trascorro così un paio d’ore, ferma nello stesso metro quadrato all’interno del quale c’è tutto quello di cui ora io ho bisogno. La mani occupate, gli occhi tutti per lei. Dopo un po’ ci raggiunge anche mio suocero. E’ scappato di corsa dopo il lavoro per venire a trovare la nipotina pelosa.
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E in tutto ciò abbasso lo sguardo e noto un grumo d’inchiostro sulla sacca in cui fluisce l’urina dalla vescica che le hanno appena operato. Attraverso un tubicino – uno dei due a cui è attaccata la creatura. 
Guardo meglio ed eccola lì, la Gigia, in un disegno che la ritrae seduta, con i suoi occhioni dolci, le orecchie spalancate e la striscia bianca in fronte. Ed intorno tre cuoricini. 
Non riesco a trattenere una risata, persino una sacca d’urina con su scritto il nome del cane, la data e l’orario in cui la si è messa in funzione può diventare kawaii:sono le magie di cui è capace un pennarello e la mano – particolarmente dolce – di un’infermiera.

P + P + C = un viaggio in treno di lunedì mattina

Quando, alle volte, mi chiedo cosa di questa città mi abbia fatto innamorare penso subito alle Persone e alle Possibilità. Perchè in questo intricato labirinto di strade e vicoletti in cui ogni centimetro ha una sua funzione, ogni spazio – seppur minuto – un essere che lo abita, ho incontrato persone con cui c’è voluto tanto tempo per creare vicinanza ma che poi sono rimaste e mi deliziano la vita. Le posso contare sulle dita di una mano, dita con pochi anelli. Brillanti il giusto, senza esagerare. Ma che a guardarli mi rendono felice ed orgogliosa.
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Perchè se nella moda, come diceva Coco Chanel “quando è tanto è troppo”, in amicizia è uguale. Quelle dei giapponesi, poi, sono vite dense che permettono giusto spiragli e non camere vuote da riempire e chi, in questa città, ha poco da fare finisce per rattristarsi, forse anche per incattivirsi. Tutti intorno sono molto impegnati e se non si vive una vita – non dico frenetica, ma almeno punteggiata da un po’ di lavoro e piena di interessi – si rischia di sentirsi soli
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 Oggi zona Shibuya e scrivo questo post dalle ultime carrozze di un treno affollato della Linea Inokashira, seduta tra un salaryman dall’alito fetente e un ragazzetto che non stacca gli occhi dal suo cellulare, con davanti una ragzza che ha le unghie dei piedi con una coloratissima fantasia di coni gelato in rilievo, altri due salaryman – uno dei quali spicca per un’altezza non inferiore al metro e novanta – e infine una ragazza dai capelli tinti e permanentati, il volto fino, e un camicione a quadri da cui si stacca un bottone.
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Si china a raccoglierlo ed io colgo l’occasione per sbirciare mio marito seduto dall’altro lato della carrozza perchè un posto accanto non siamo riusciti a trovarlo. Ho una decina di minuti e poi chiuderò il pc e ci tufferemo nella folla del mattino di Shibuya.
Cosa mi ha fatto innamorare di Tokyo, dicevo.
E’ anche il Compromesso urbanistico che per assurdo mi riporta a ritroso nel mondo dell’infanzia, alle estati di quando ero bambina nella casa in montagna, alla prima bicicletta che mi venne regalata, all’emozione del pedalare che venne dopo tante cadute, tante sbucciature alle ginocchia e acqua ossigenata nel piccolo bagno che, in quei momenti, mi faceva una gran paura. Perchè – acqua ossigenata e cadute a parte – , qui posso muovermi in bicicletta per andare (quasi ovunque) al lavoro, mettere la spesa nel cestino e tornare pedalando verso casa. 
E poi perchè c’è tanta natura, campus universitari pieni d’un verde che commuove, di prati su cui sdraiarsi a guardare le nuvole passare. E poi ci sono così tanti piccoli parchi, incastonati tra casette a due piani con il giardino intorno. Proprio come accadeva quando ero bambina, nella casa in montagna. E nei giorni d’inverno, in lontananza, da Tokyo vedo anche loro, le montagne. E il Fuji-san che le supera tutte.
Non l’avrei mai detto prima di partire per il Giappone. Così come non avrei mai detto che a Roma non sarei più tornata, che avrei sposato un ragazzo giapponese e che avrei esaudito il sogno di lavorare all’università tanto presto.
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Eccole, le Possibilità.
Che si basano sul dare. E sul conseguente ricevere – sacrosanto – della vita che sognavo.
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Shibuya. E’ il capolinea. Noi scendiamo qua.

Delle parole che non vorresti mai imparare

Da quando ho incontrato la Gigia ho imparato la parola ecografia 超音波検査, lastra レントゲン検査. Subito dopo l’adozione della Gigia, abbiamo imparato termini mai sentiti neppure in italiano perchè pare abbia una malformazione cardiaca e che ogni operazione sarà sempre un rischio. Ma lei è gioia pura e da fuori non si direbbe affatto che sta male.

Ad ogni modo, anche se sono complicate queste parole, così lunghe e così lontane dal mio mondo linguistico, le imparo. Me le scrivo e faccio in modo da non dimenticarle.  Arriva però il giorno in cui devo imparare parole anche più dure come, in associazione, vescica 膀胱  e poi tumore 腫瘍.

Martedì dal veterinario, scopro infatti che la Gigia ha un tumore. Maligno o benigno non si sapeva ancora. Ma le parole promettono cose. E se sono termini con echi sinistri, belle non possono essere. E, purtroppo, avevo ragione.

 Guardo questa creatura inconsapevole di tutto e mi dico che vorrei tanto non aver imparato queste parole ma anche che da oggi, per curarla, ne dovrò imparare ancora altre, anche di più complicate. E voglio che siano termini in cui vi sia spazio per l’azione, per il fare. Per il curare.

Passa intanto una settimana e nell’ignoranza che mantiene ferma ogni azione – perchè nello specifico ancora non ci sanno dire, le analisi sono imprecise, il corpo un giocattolo troppo capriccioso –  capisco che forse è arrivato il momento di arrabbiarsi. E per la prima volta da anni mi arrabbio. E grido impazienza. E allora ci indirizzano in un ospedale dove ogni cosa si fa più semplice e più chiara. Anche se, inevitabilmente, più costosa.

Non trattengo niente dentro. Sono così. Di chi non amo non mi curo – taglio via la bruttezza della gente come un paio di cesoie i rami secchi. Ma di chi amo mi curo in modo persino maniacale e non c’è dettaglio che non noti. E di questa cagnolina, incontrata in un giorno d’estate in un canile di Shinagawa, posso dire di sapere tutto.

E torno alla memoria a quel giorno.

“Aspetti qui che gliela porto” mi dice il veterinario del canile mentre con un micino bianco e nero sulla spalla si allontana lungo un corridoio pieno di porte e di luce.

Sono emozionata. E come accade quando sono emozionata il cuore diviene un organo che si sente, qualcosa che non è ovvio che ci sia.

L’uomo torna. Lo vedo arrivare e automaticamente mi accuccio per accogliere quella creatura che non ho ancora incontrato ma che ho già deciso di fare figlia e migliore amica. Tira forte perche’ e’ eccitata quanto me, mi si butta addosso e nelle mani è magra e perde pelo.

“Vuole sapere il nome con cui la chiamavano prima?” mi chiede il veterinario del canile.

“No” rispondo decisa. “E’ un nome che ha dentro un abbandono. Le posso dire pero’ il suo nuovo nome. Si chiamerà Gigia. Come Topo Gigio, ma al femminile. Sa, in italiano abbiamo il genere dei nomi. Basta cambiare la -a in -o e viceversa”

Sorride. Ma piano. Ha un viso serio questo veterinario. La dolcezza la nasconde nel sorriso che, di tanto in tanto, gli trasforma il volto. Forse, penso, è una di quelle persone che per lavoro hanno a che fare con la cattiveria della gente. Del resto chi ha portato lì la Gigia ha firmato un foglio in cui autorizzava la sua eventuale soppressione…

Così, mentre al secondo piano dell’edificio vado a seguire il seminario in cui il veterinario mi spiega come accudire il cane, mi mostra in barattoli di vetro cosa fa la filaria alle viscere di un cane, mentre prendo appunti dalle slides in power point, ho nel cuore l’emozione di quella creatura con il naso nero e umido che ho incontrato poco fa.
E’ la procedura per adottare un cagnetto dai canili giapponesi. Due lezioni, due seminari di un’ora circa l’uno. E dopo qualche scartoffia la creatura è tua.

Il primo regalo che le fai è il nome. Allegro, pieno della dolcezza delle gi e della bellezza della tua lingua madre. Il secondo è un collarino blu che hai comprato insieme a Miwa il giorno prima, quando Ryosuke ti ha detto che c’è un inu (cane, cagnetta) che si può andare subito a prendere ma che, dato che nella parola giapponese non c’è il genere, tu – chissà poi perchè – hai pensato fosse un maschio.

Da quel giorno sono passati due anni e lei è diventata a tutti gli effetti nostra figlia.

La Gigia non ha la coda. Ma ti guarda. E i suoi occhi restano puntati nei tuoi occhi.
Ed io voglio esserne all’altezza.


***Ci vuole tempo, cura e tanta pazienza. Settimane indaffaratissime. Per un po’ sottrarrò tempo al pubbico per concentrarmi sul privato.
Torno, sì. Ma con tanto meno tempo per gestire tutto. Grazie dell’affetto – in una misura che mai avrei immaginato – che mi avete mostrato. Mi ha convinto a non chiudere nè pagina nè blog.
Il mio secondo admin si occuperà completamente della gestione del blog. Io vi entrerò quando avrò da inserire nuovi post. Mi perdonerete se leggerò con ritardo i commenti. Lo farò tutto in una volta, tra un po’. E anche sulla pagina ci sarà qualcuno che mi aiuterà. Grazie a loro ma anche a tutti voi. Mi scuso e vi abbraccio. Laura