Apprendere una lingua è una festa

Dopo due anni spaziare per un’aula universitaria, prendere possesso di una lavagna, sentir suonare la campanella, guardare un sakura sfiorire nella luce oltre la vetrata mentre spiego ai ragazzi come apprendere una lingua debba essere innanzitutto una festa, pura fiducia nell’errore che costruisce pezzo pezzo l’esperienza.
Tra i corridoi giovani donne e uomini in mascherina, che ridono alla stessa maniera, commentano la lezione appena finita.
E Keita è diventato Fabio, Kaede si è tramutata in Maria. Ad ognuno ho affidato un nome italiano, insieme all’alfabeto. Esco dall’aula, mi riverso con loro nel sole di questo giorno che rende bellissima Tōkyō.
Con un pizzico di vanità passo a provare un abito a Yokohama. Ha un fiocco stretto alla vita ed è gofun-iro 胡粉色, quella varietà di bianco fatta di polvere di valve d’ostrica. Lo specchio mi restituisce una me che in due anni è profondamente cambiata.
Me lo riesco a spiegare solo dicendomi che in questo tempo ho come parcellizzato un colore. Come Mio che in un bianco ne vedeva cento, io adesso ho decine di emozioni in più per ogni sentimento: tristezza, amore, passione, rabbia, perdono, maternità, egoismo. Pare una casa dalle interminabili porte, il mostro Idra che più teste perde più ne guadagna.
Vivo adesso con una intensità che due anni fa mi era sconosciuta. E trovo bellissima la mia vita nonostante certi errori grandi che insisto a fare. In fondo è perché ho la certezza che sbagliando non si apprenda solo una lingua straniera ma anche la vita.

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