La felicità declinata in giapponese

Al caffè, davanti al tavolino dove scrivo degli invisibili personaggi che mi affollano la mente, siede una donna con capelli lunghi, neri e stropicciati, occhi come rubini, truccati di un rosso sfumato che si intuisce soltanto.

Sorbisce lenta una tazza di maccha, un verde che pare strillare tanto è acceso; accanto alla mano un tondo dorayaki che svela la sua polpa, per via di un unico morso che lei gli deve aver imposto distrattamente, prima di dimenticarlo. Il sole varca le vetrate, ma poco, perché questo caffè, sempre un poco in penombra, si lascia appena influenzare dal tempo che passeggia al di là della porta.

È in compagnia di una famiglia, dai lineamenti suppongo sia la sua. La tira per la linea dell’occhio una sorella, un nipote mi suggerisce la medesima curva delle labbra. Tuttavia quel che mi porta a guardarla è un altrove.

È la posa instabile del volto, l’espressione che decide.

È che sorride in superficie, non cala mai sul fondo.

 

Come non fosse sicura di poter mantenere la sincerità di quel sorriso, pare interrogarlo. Ispeziona il cellulare, si isola con lo sguardo pur restando lì, innanzi al pomeriggio, a bambini che non smettono per un attimo di muoversi e parlare, al tempo della vita scambiata con i familiari. Il maccha è abbandonato, il dorayaki con quell’unica orma che resta lì.

Annuisce, eppure la bocca resta muta, gli occhi zitti che paiono invece irrequieti.

Cosa ferma quel sorriso?

Cosa vede questa donna che non vede nessun altro?

Ho scoperto negli anni che la felicità non è qualcosa che si trova, non ha niente di dovuto, è a tutti gli effetti qualcosa che si crea, come il tempo, come una famiglia. È un progetto, fatto di post-it, impegni presi con altri e con se stessi, pause forzate, brevi accelerazioni, chiudi gli occhi e affidati a quanto ti accade! talvolta, tienili bene aperti e guarda cosa è che sta accadendo intorno a te! in altri casi, decisioni su chi è giusto resti nella tua vita e a chi aprire invece la porta, perché possa lentamente andar via.

La felicità richiede capacità, come lame che vanno affilate tutta la vita. Un esercizio costante, ecco cos’è. «Sì», dico piano a Ryosuke, «la felicità richiede capacità».

“Capacità” non solo nel senso di attitudine a contenere – perché è indubbio che ci voglia una sorta di spazio all’interno di sé, tanto che dopo una sottrazione di impegni, una rottura, serve la consapevolezza di star preparando il terreno a un nuovo seme, dissodando la terra per arricchirla di sostanza, disossando la base che deve farsi molle per prepararsi alla metamorfosi e alla gioia -, ma “capacità” anche nel senso di abilità nel maneggiarla, gestirla, mantenerla.

 È un costante esercizio di manutenzione la gioia.

 E allora Ryosuke mi parla della felicità nel sociale che studia, della parola. Apro un libro che ho letto di recente e di questo sentimento declinato al Giappone fa una panoramica chiara (Trampus, A., Il diritto alla felicità. Storia di un’idea, Bari, Laterza, 2008). Quest’uomo che amo pazzamente, anche per tutto quello di infinito che sa più di me e riesce anche a trattenere, annuisce.

«È così»La storia della felicità in Giappone porta sulle sue spalle una lunga evoluzione, soggetta non solo al proprio sentire originale, ma a quella prima rivoluzione sostanziale che fu adottare il sistema di scrittura cinese, finendo per forza di cose per accogliere le sfumature di concetti che erano altrui, in quella frizione continua che si produce tra due sistemi diversi di pensiero. La traduzione è possibile, sempre, nella misura in cui la si consideri alla base imperfetta, incapace, nel salto, di diventare una sola parola. Serve spiegare, aggiungere termini a quel solo che si voleva veder cambiar forma, pur mantenendone intatto il senso.

 In origine era 「幸い」 /saiwai/ “(buona) fortuna, felicità” , dal verbo 「栄える」 /sakaeru/ che significa “prosperare, fiorire; essere fiorente”, allacciando non solo il senso della prosperità a quanto sboccia e cresce, ma al concetto di fortuna cui le società antiche legavano rituali propiziatori per piegarla a sé.

Con l’introduzione della parola cinese 「幸福」 /kōfuku/ i concetti di “fortuna” (幸) e di “grazia divina” (福) si abbracciano in una coppia di kanji, ed è per una intercessione dall’alto che la vita non si interrompe bruscamente, che la morte non sopraggiunge in giovane età, che la salute assiste e la povertà non consumerà una casa.

Arriverà la rivoluzione Meiji, e così l’Illuminismo occidentale, con la sua complessa carica concettuale attaccata all’idea di una gioia di diritto, di una felicità strettamente legata a un discorso politico sul benessere dell’individuo, sul dovere di uno stato di garantirla a tutti.

E il Giappone cercherà ancora una volta di trovare le parole per tradursi concetti provenienti dall’Europa e dall’America. Le parole slitteranno nel significato, e pur utilizzando il medesimo termine si finiranno per pensare cose diverse. Essere stranieri, del resto, non significa proprio questa cosa qui?

Questa torsione del concetto di felicità sfocerà nella Costituzione del 1946, redatta sotto la stretta supervisione americana all’indomani della disastrosa sconfitta della seconda guerra mondiale.

L’articolo 13 della Costituzione giapponese afferma infatti, accanto al rispetto dell’individuo, al suo diritto alla vita e alla libertà, ma anche al perseguimento della felicità, in forme che non sono specificate, perché felicità è un verbo, e la sua coniugazione è strettamente personale.

«tutte le persone che costituiscono il popolo saranno rispettate come individui. Il loro diritto alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità, entro i limiti del benessere pubblico, costituiranno l’obiettivo supremo dei legislatori e degli altri organi responsabili del governo».

Ed ecco che una cosa che cambia nome, cambia col tempo anche forma, una cosa che ci sfugge merita particolare attenzione. Perché in tutte le sue evoluzioni perde e acquista qualcosa, e sta a noi, solo a noi individuare la forma che via via essa deve assumere per adattarsi a quel mondo-lingua-cultura che siamo noi.

2 commenti su “La felicità declinata in giapponese

  1. gian luigi dondi ha detto:

    Sono rimasto molto colpito di quanto lei ha scritto. I miei complimenti,e un augurio di cuore per tutto quello che lei pensa.

    Nel 1943, vivevo a Riccione, in una piccola villetta giapponese, una delle sole tre esistenti in Italia. Così mi disse un architetto…
    Grazie per avermi fatto passare alcuni minuti ricordando quel mio periodo(…)
    un magnifico saluto a lei e la sua famiglia.
    gian luigi dondi

  2. Chimenti Antonia ha detto:

    Bello questo spazio per esser felici consentito all’individuo, aldilà dei ruoli sociali

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