La scrittura è una bambina

Ricordo che scrivevo e piangevo. Scrivevo e piangevo.
Ero al secondo piano dello Starbucks accanto alla stazione di Kamakura, nell’angolo più appartato, sola.
E, come si trovasse subito dietro di me, nella coda dell’occhio che, per quanto mi voltassi, si spostava sempre un poco più a destra o sinistra, c’era il mare.
Rivedevo l’acqua ingoiare la città – una qualunque – e strappare la gente come erbacce, un cane – un piccolo cane giallo, circondato e poi assalito dalle onde. Lo tsunami riportare tutto al livello elementare: la vita o la morte.
Il ricordo di uno di quei 45 giorni in cui ho scritto “Quel che affidiamo al vento”, è tornato su per una musica che ascoltavo incessante in quelle ore, uno dei brani che non ho potuto inserire nel libro (♪”Happiness does not wait” di Olafur Arnalds) ed è entrato per caso in questa giornata, e per la lettera di una figlia e di una madre – una delle tante che mi giungono ogni giorno (ogni giorno!) su Instagram o altrove – che raccontava di due perdite importanti, una sorella e un padre, e di come il libro avesse fatto a entrambe bene.
La scrittura ci supera sempre, ho pensato. E’ come la bambina dal passo più svelto che corre, va avanti a vedere e poi si volta felice, torna, ci prende per mano e ci dice “Fai presto, che è bellissimo lì!”, “Ma dove?”, “Poco più in là. Vieni, vieni a vedere!”.
E in ogni momento, anche uno infelice, penso che sia quella bimba, precisamente quella che va in avanscoperta e mi anticipa la gioia di quanto mi aspetta, a salvarmi il cuore. E quindi la vita.
La felicità, no. La felicità non aspetta.
*In foto qualche tempo fa. Quando ho capito per la prima volta quanto la gioia di una addizione coincidesse perfettamente con la paura della sua sottrazione.

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